Le verità dell'avvocato di Bettino Craxi
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Le verità dell'avvocato di Bettino Craxi

Enzo Lo Giudice è stato sì l’avvocato di Bettino Craxi durante il crollo della Prima repubblica. Ma, con la passione della politica e una forte sensibilità civile, è stato soprattutto un testimone critico delle scorciatoie imboccate dalla giustizia in quella stagione drammatica. Un libro racconta i retroscena - da Cuccia a D’Alema - a cui ha assistito. E ne ripercorre il pensiero, più che mai attuale

«Salutami quel comunista di tuo padre». A parlare è Bettino Craxi in esilio ad Hammamet e il destinatario del saluto è il suo avvocato Enzo Lo Giudice, colui che lo affianca, lo difende e con lui sta battagliando contro gli intoccabili del pool di Mani pulite durante la rivoluzione giudiziaria, negli anni della «società civile» in piazza con cappio e monetine. Quel giorno alla fine del secolo breve lo statista confinato in Tunisia aggiunge: «È l’ultimo comunista sulla terra. Siamo rimasti solo io e lui ad aver letto Il Capitale. E ad averlo capito. Io in un senso, quello giusto. Lui nell’altro. Addio!». Il Sol dell’avvenire sta tramontando, il destino dello statista socialista si sta per compiere nella dimora di route El Fawara, la Storia interverrà a rimettere al suo posto la cronaca.

Venticinque anni dopo, quello spaccato di vita italiana torna a bussare grazie al libro-verità firmato da Salvatore Lo Giudice, il figlio di quel padre, il postino di quell’addio, l’allora giovane testimone di un legame destinato a trasformarsi nel paradigma del rapporto fra l’imputato eccellente e il suo legale-confessore. S’intitola appunto L’ultimo comunista (Luigi Pellegrini Editore), scritto con il giornalista Francesco Kostner, ed è un prezioso memoriale sotto forma di intervista, intrecciato con una biografia che prende il via nella Calabria profonda degli anni del Dopoguerra, con documenti inediti e voci fuori campo. Per dire, quella del documentario Il popolo calabrese ha rialzato la testa, di Marco Bellocchio, è del poliedrico Enzo.

Lo Giudice è stato un totem di Tangentopoli, uno dei primi a coglierne l’essenza ambigua, quando «invece di cercare le prove i magistrati cercavano i reati». Nato a Paola (Cosenza) nel 1934 (dov’è morto nel 2014), è stato protagonista per più di mezzo secolo dei più importanti processi penali celebrati in Italia e si è sempre definito un militante. Come spiega il figlio Salvatore, che ha ereditato toga, scienza e conoscenza, «ha tratto il senso della professione ricercando la soluzione dei problemi della giustizia sociale, che il diritto non risolve». Tra i fondatori del Psiup - il Partito socialista italiano di unità proletaria - con Aldo Brandirali, d’ispirazione maoista in contrasto con il più grande partito comunista dell’Occidente, fece parte di una classe dirigente calabrese ancora oggi influente. Scrive Salvatore: «Fra i tanti che ho sentito spesso nominare ci sono Linda Lanzillotta, Michele Santoro, Barbara Pollastrini, Renato Mannheimer, Marco Bellocchio, Antonio Polito, Giuliana Del Bufalo, Nicola Latorre». Mosso da passione irrefrenabile per la politica, alla fine degli anni Sessanta Enzo Lo Giudice si fece conoscere per alcuni gesti che andavano molto oltre la filosofia marxista: la protesta dei contadini che murarono la giunta comunale di Isola Capo Rizzuto dentro il municipio con calce e mattoni (il sindaco aveva deciso di assegnare le terre ai suoi amici e non ai braccianti), e l’occupazione di notte delle case popolari di Paola. «Un’azione concreta contro un’ingiustizia clamorosa, di famiglie con bambini che abitavano in baracche senza servizi mentre queste case costruite da anni restavano vuote perché i partiti se ne contendevano le assegnazioni».

Questo era l’Enzo Lo Giudice che arrivò a Milano. Spiegava ai giovani di studio «Voi non fate gli avvocati, siete avvocati!», spingendo sul valore della vocazione. E non poteva temere le spallate al diritto di toghe ruggenti come Piercamillo Davigo e Antonio Di Pietro, il teorico della «corruzione ambientale». Durante Tangentopoli, a un simile approccio dogmatico rispondeva: «Processare il fenomeno invece del fatto reato è il germe di un’inchiesta, è la fine dello stato di diritto. Secoli di civiltà giuridica distrutti in nome della demagogia cieca, violenta». Per ricordare qualche tempo dopo: «Il processo di piazza sostituì quello nelle aule prima ancora che cominciassero le indagini. E la sentenza di condanna sarebbe stata emessa dal popolo, non in nome del popolo, prima ancora di cominciare il dibattimento».

Era il nodo del caso Craxi, allora raccontato nel pamphlet Le urne e le toghe. Un approccio modernissimo, che continua a illuminare le storture della giustizia, già apparecchiate in tutta la loro chiarezza 25 anni fa. La biografia contiene anche pepite storiche di valore. «Chi non aiutò il leader socialista a farsi operare in Italia fu il governo D’Alema, lo stesso che aveva appena concesso l’asilo al leader curdo del Pkk, Abdullah Öcalan, mettendolo in fuga su un aereo dei servizi». Per questo la famiglia disse no quando furono offerti i funerali di Stato. Ma la vicenda più singolare riguarda Enrico Cuccia, il gran visir della finanza.

Scrive Salvatore Lo Giudice: «Craxi mostrò a mio padre un bigliettino di auguri di Cuccia datato 1989 in cui era riportata una significativa frase di Goethe che alludeva a “una nuova epoca”. E gli rivelò di aver incontrato più volte Cuccia, il quale gli espresse le preoccupazioni di ambienti americani che pronosticavano l’imminente crisi del sistema italiano, post muro di Berlino, pesantemente gravato dal debito pubblico e dalla corruzione. Cuccia gli parlò di una svolta politica per gestire il passaggio dal vecchio al nuovo evitando il caos. Mio padre percepì che era stata prospettata al leader l’opportunità di farsi interprete politico di questo piano. Ma Craxi non raccolse la sollecitazione».

Un grande avvocato testimone della Storia, un libro che diventa una finestra sul presente. Con giudizi che somigliano a sentenze. Il giudice? «Dev’essere soggetto solo alla Costituzione. Invece nel nostro Paese il processo penale è riuscito a selezionare il quadro politico, a mettere fuorilegge i partiti storici, a cancellare i delitti dei nuovi potenti non scelti dal popolo. Il giudice tecnico, il giudice per mestiere, è stato il protagonista di tanto scempio della democrazia. E il carcere è servito più del suffragio universale». L’imputato? «Chi incappa nella giustizia penale è al massimo della sua fragilità e va maneggiato con cautela. È un uomo in balia di un uomo». Il pubblico ministero? «Il magistrato che dimentica questo finisce per considerare normale il suo potere eccezionale e perde il solo modo che ha per distinguersi dall’aguzzino». I giornali? «Ridotti a meri bollettini giudiziari».

Nell’Ultimo comunista ci sono anche lungimiranti risposte ai grandi quesiti di oggi. Per esempio su carcerazione preventiva e separazione delle carriere. Su quest’ultima, architrave della riforma del ministro Carlo Nordio, Lo Giudice era freddo. «Il nostro Paese non ha bisogno di riformare le forme, perché esse ci sono già». Poi la stilettata sulla sostanza: «Se un pm vale, è onesto e capace, e svolge con competenza la sua difficilissima funzione rispettando i valori fondamentali dell’ordinamento, nessuno dall’esterno lo può delegittimare. Se è un mediocre o un meschino si delegittimerà da solo».

Nel libro c’è un passaggio interessante anche sul passato del Guardasigilli, che spiega le radici del livore della sinistra postmarxista per l’ex magistrato di Venezia. «Avendo indagato a fondo sul vecchio Pci» afferma Nordio «posso dire che l’espressione “questione morale” è impropria, ambigua. Perché è stata usata da un partito che non aveva nessuna legittimazione a dare lezioni di moralità, tenuto conto che il Pci veniva finanziato dall’Urss, ovvero da un Paese nemico. Neanche Enrico Berlinguer aveva la patente di moralità, visto che i soldi al partito arrivavano da Mosca. Non esistevano partiti migliori e partiti peggiori; in questo senso Craxi aveva ragione».

Infine c’è il lungo colloquio insonne dell’ultima notte ad Hammamet, durante la quale Enzo Lo Giudice si convince che «Bettino ha subìto la più turpe delle ingiustizie, l’offesa e l’aggressione alla sua libertà. Mi aveva chiesto di difenderla anche a costo della sua vita. Ma è stato lui che l’ha difesa meglio». Oggi quella tomba guarda il mare, rivolta verso l’Italia.

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Giorgio Gandola