Il senso dell’esame di maturità
Ai nastri di partenza del tema, previsto per domani per tutte le scuole superiori, ci si interroga sul senso di un esame ancora nell’immaginario collettivo ma per certi versi svuotato di peso specifico. Eppure conta ancora e sarebbe meglio che importasse di più
Che cos’è l’esame di maturità?
La maturità è un rito. Le materie affidate ai docenti esterni comunicate a fine gennaio, i cento giorni festeggiati dagli studenti a metà marzo che fanno comparire cartelloni colorati per il conto alla rovescia che avvicinerà alla prima prova, i nomi dei docenti della commissione pubblicati a poche ore dall’ultima campanella (e la ricerca online come fosse utile sapere che faccia hanno, quanti figli, recensioni, squadra del cuore), la notte prima degli esami con Antonello Venditti sempre e comunque, lo studio matto e disperatissimo in biblioteca o al bar, da soli o in gruppo, i viveri da portare durante le prove, gli abbracci dei genitori e la telefonata dei nonni, il tototema e l’aneddotica sorbita e quella che questo esame genererà per gli anni a venire. Non è solo questo, ma certamente la maturità è anche questo, perché ogni anni mezzo milione di studenti vive in condizioni analoghe gli stessi timori, le stesse paure, le stesse attese, le stesse speranze.
La maturità è un retaggio del passato. C’è chi vorrebbe eliminarla o comunque la mette in discussione, perché ormai non fa che confermare “la media degli anni passati” come sostiene il presidente dell’Associazione Nazionale Presidi Antonello Giannelli, c’è chi vorrebbe demitizzarla, perché una persona non cambia prima o dopo l’esame e perché c’è troppa retorica intorno. Non è solo questo il problema, ma in effetti la maturità non ha quella rilevanza sociale – e neanche curricolare – per chi la affronta e per chi la supera e c’è poco spazio per il riscatto, specie con i nuovi punteggi attribuiti alle prove. Il voto conta poco, al di là della soddisfazione o della delusione personale, e il dopo maturità è già impostato da tempo, anzi in questo senso l’esame – e in genere l’ultimo anno e mezzo di scuola – è sempre più una seccatura, perché ormai gli studenti pensano al post-diploma dalla metà del quarto anno, rendendo il clima di lavoro scolastico difficile, con alunni impegnati in test di ingresso e attività orientative di ogni tipo – e non ne hanno colpa gli studenti se il sistema li recluta dalla quarta superiore – che producono assenze, preoccupazioni e “cose serie” di cui occuparsi come l’accesso a una facoltà o la caccia a un posto di lavoro, altro che Hegel, Pascoli, Joyce e Petronio.
La maturità è ormai una formalità. Chi accede all’esame, è quasi promosso, i dati sono chiarissimi: lo scorso anno i promossi sono stati – pare incredibile a leggersi – il 99,8% dei candidati ammessi. E poi tra PCTO, orientamento, educazione civica, CLIL, capolavoro e colloquio orale che non deve contenere domande nozionistiche (!) di ciò che è la scuola rimane poco. Anche qui c’è del vero, perché il colloquio di maturità si è via via svuotato, senza possibilità di incidere per chi ha la stoffa e lo studio alle spalle per farlo. Così si diventa spettatori/passeggeri di centinaia di colloqui che devono iniziare, svolgersi, far tornare i conti e terminare.
La maturità è una penitenza. In questo caso, si parla di docenti: è una penitenza perché si deve fare i conti con una burocrazia cavillosa - con verbali digitali ma poi sempre da stampare, da ritagliare, da incollare, di siglare – che sembra l’oggetto principale di ogni riunione di commissione, e con commissioni d’esame peraltro spesso incomplete a causa di malattie, rinunce, latitanze. Ancora, i lavori trascorrono sempre sul filo della tensione, a rischio ricorso, e in un caldo soffocante se farà caldo, tenendo conto che non può non fare caldo se si calendarizzano i lavori tra giugno e luglio in edifici rigorosamente privi di impianto di condizionamento.
Eppure c’è dell’altro, perché la maturità, anche in questo percorso a ostacoli, può valere ancora qualcosa. Innanzitutto, è un traguardo: è il termine di un percorso che ha coinvolto ogni studente nelle viscere, facendolo gioire, piangere, divertire, sudare, imparare, sbadigliare, sbandare, rifarsi. E’ un traguardo e va tagliato sentendone il carico simbolico di una parte di vita che chiude un percorso e ne vede alle porte uno diverso, nuovo, ignoto. Sta a noi adulti far percepire questo misto di emotività e passaggio iniziatico che oggi pare così vuoto, perché si bada solo all’utile, allo spendibile, ma che invece dà importanza, valore, senso alle cose, alle giornate, alle vite. La scuola ha proprio ancora questo compito: soffermare l’attenzione su ciò che importa, su ciò che vale, nonostante tutto. E la maturità ne è l’ennesima possibilità, nonché l’ultima, per farlo.
Poi, sempre in questa direzione, c’è l’epica dell’esame. L’aneddotica, certo, tra leggenda e realtà, ma anche le serate sui libri insieme, lo studio di materie che non si studieranno più, il saluto a un percorso scelto anni prima e ora all’ultima curva.
Con questo spirito, quindi, è tempo di cominciare. Domani 500 mila studenti piegheranno a metà per l’ultima volta un foglio protocollo a righe e consegneranno l’ultimo tema della loro vita, sudandone ogni riga in quelle sei ore e in quei banchi ormai piccoli per loro, tra richieste di permesso per andare ai servizi e timori nel mettere una firma in un rettangolino bianco a fianco del loro nome e cognome.
Domani inizia un altro esame di maturità, per 500 mila studenti sarà “il loro”: non rubiamoglielo. Alè.