ESCLUSIVO - Ecco il contenuto delle telefonate tra Napolitano e Mancino
Abbiamo deciso di pubblicare l'articolo di Panorama in edicola che ha fatto tanto discutere - Il nostro speciale
Che cosa si sono detti il presidente della Repubblica, Giorgio Napolitano, e Nicola Mancino? Sulle conversazioni segrete intercettate dalla Procura di Palermo si sta scrivendo una pagina di storia repubblicana assai tormentata, con inedite coalizioni di commentatori e politici le une contro l’altre armate. Ma è una storia che, se avesse un titolo, potrebbe essere molto semplice: la grande ipocrisia.
Ovvero: come usare ogni artifizio retorico e/o giornalistico per fare capire di sapere ciò che c’è nelle intercettazioni senza dichiararlo apertamente. Vediamo di comprendere meglio e, soprattutto, per quale scopo vengono lanciati questi messaggi (vedere anche l’editoriale a pagina 12 e il riquadro a pagina 64). Con due premesse. La prima: da sempre Panorama critica il devastante potere delle intercettazioni nel deformare il pensiero di chi parla, con la trascrizione di frasi fuori dal contesto in cui sono pronunciate. La seconda premessa riguarda la grande cautela con cui bisogna guardare a messaggi trasversali, soprattutto quando sono rivolti a una figura delicata e decisiva come quella di Napolitano in questa fase della vita politica italiana. Ma i fatti sono fatti e vanno raccontati, soprattutto quando possono nascondere manovre non limpide verso un’istituzione fondamentale come la presidenza della Repubblica. E svelarli per quel che sono e per quel che si può capire significa contribuire a rompere e interrompere ogni gioco poco chiaro (o forse troppo chiaro) che si voglia costruire.
Iniziamo dal contesto dei colloqui telefonici. Si dice che tre indizi costituiscono una prova: e qui di indizi, per ricostruire i contenuti dei colloqui, ce ne sono appunto tre. Sono i commenti di altrettanti osservatori, certamente bene informati (e non appartenenti a un unico fronte politico o editoriale), che il 24 e il 25 agosto hanno ipotizzato in modo univoco e convergente che cosa potrebbero «nascondere» le famose telefonate intercettate su input della procura siciliana e oggetto di un tormentato conflitto di attribuzioni sollevato dal Quirinale davanti alla Corte costituzionale.
Ad aprire le danze è Ezio Mauro, sulla Repubblica di venerdì 24 agosto, con un editoriale in cui a un certo punto scrive: «Facciamo un’ipotesi astratta, di scuola. Quante telefonate avrà dovuto fare il capo dello Stato nelle due settimane che hanno preceduto le dimissioni di Silvio Berlusconi da Palazzo Chigi? Se quelle conversazioni, che hanno preceduto e preparato l’epilogo italiano di vent’anni di berlusconismo, fossero diventate pubbliche quell’esito sarebbe stato più facile o sarebbe al contrario precipitato nelle polemiche di parte più infuocate, fino a rivelarsi impossibile?».
Il giorno dopo Marco Travaglio sul Fatto quotidiano è rapido nel sottolineare: «Se per caso fossero stati legittimamente intercettati colloqui del presidente relativi alla crisi che ha portato alla fine del terzo governo Berlusconi, noi non troveremmo nulla di scandaloso che fossero resi noti». E subito dopo aggiunge un indizio: «Anzi se, come Napolitano ha sempre assicurato, si è attenuto scrupolosamente al dettato costituzionale, sarebbe suo interesse dimostrare che le cose stanno davvero così e che abbiamo almeno un politico che dice in privato le stesse cose che dice in pubblico».
Più cauto, il 25 agosto, Adriano Sofri sul Foglio: «Mettiamo che Napolitano – invento del tutto, eh! – abbia detto a Mancino che “il tale è un imbecille” o che “il talaltro è un farabutto” . È comprensibile che non desideri vedere rese pubbliche le sue frasi private».
Ecco dunque messe in fila le tre «ipotesi di scuola» che, guarda caso, non si discosterebbero poi di tanto dal reale contenuto delle conversazioni. Diverse fonti hanno infatti confermato a Panorama nei giorni che hanno preceduto gli interventi di Mauro, Travaglio e Sofri che il contesto da loro delineato, e abilmente dissimulato, è molto prossimo alla verità. Per essere ancora più espliciti: le telefonate dirette tra il capo dello Stato e Mancino risalirebbero al periodo dell’ultima crisi di governo (siamo agli sgoccioli del 2011) con corollario di giudizi su diversi protagonisti di quella fase, alcuni dei quali molto ruvidi e, ovviamente, impossibili da rintracciare nelle dichiarazioni ufficiali dell’epoca o successive.
Quei colloqui dovrebbero essere blindatissimi, conservati in nastri non ancora sbobinati. Eppure le maglie del segreto non sono così strette, come aveva rivendicato il dominus dell’inchiesta, Antonio Ingroia, in una recente intervista al Corriere della sera, se qualcosa delle chiamate captate dagli investigatori sta trapelando attraverso il tam-tam che dagli uffici giudiziari siciliani si sta diffondendo nelle stanze del potere romano e dell’informazione.
Avventurarsi nei virgolettati sarebbe un esercizio pericoloso e soggetto a facile smentita, dal momento che non esistono tracce di questi colloqui nelle carte processuali. Di certo nel novembre e dicembre del 2011 Napolitano ebbe con Mancino alcune conversazioni, del tutto ignaro che l’interlocutore fosse ascoltato dai magistrati che indagavano sulla «trattativa» tra Stato e mafia. In particolare, tra le persone oggetto delle discussioni fra il capo dello Stato e un amico di vecchia data come l’ex leader democristiano ci sarebbero stati Berlusconi, Antonio Di Pietro e parte della magistratura inquirente di Palermo. Napolitano, in particolare, avrebbe espresso forti riserve sull’operato della procura e sull’apparato mediatico che fiancheggia acriticamente le toghe siciliane.
Anche su Di Pietro le confidenze telefoniche a Mancino non avrebbero risparmiato critiche. È noto che l’ex pm di Mani pulite e attuale leader dell’Italia dei valori non gode di buona stampa nell’entourage del Quirinale per quel populismo giudiziario che da 15 anni condiziona gran parte del centrosinistra, impedendo la crescita di una cultura garantista e riformista.
E parole molto poco benevole con il ricorso a metafore assai lontane dal linguaggio ovattato proprio delle alte cariche istituzionali, infine, sarebbero state riservate anche a Berlusconi, al quale verrebbe addebitata la responsabilità di avere appannato l’immagine internazionale dell’Italia al punto da fare tirare un sospiro di sollievo dalle parti del Colle per la sua uscita di scena da Palazzo Chigi.
Se si considera che l’utenza di Mancino è stata ascoltata dal novembre 2011 all’aprile di quest’anno, non è insensato ipotizzare che le telefonate dirette tra il presidente e l’ex ministro dell’Interno possano essere più numerose delle due di cui si continua a parlare senza alcuna smentita da Palermo. Da qui la preoccupazione del Quirinale: quali sarebbero le conseguenze sugli assetti politico-istituzionali interni e sui rapporti internazionali dell’Italia se le intercettazioni (tutte le intercettazioni) fossero divulgate nei dettagli?
La pubblicazione di robusti giudizi su leader politici finirebbe per collocare le parole del capo dello Stato fuori dal contesto in cui sono state pronunciate, al punto di travisarle, come insegna la storia delle intercettazioni telefoniche in Italia. Darebbe inoltre un’immediata rilevanza a conversazioni private (oltretutto prive di interesse penale, come gli stessi magistrati palermitani hanno sottolineato), avvenute con una persona con la quale Napolitano ha una lunga consuetudine di rapporti e con la quale ovviamente i filtri dell’aplomb istituzionale sono azzerati per via di un’antica amicizia consolidata nei decenni anche per gli incarichi (ministro dell’Interno, presidente del Senato e vicepresidente del Consiglio superiore della magistratura) ricoperti da Mancino.
Quelle parole, quindi, finirebbero inevitabilmente per alimentare un clima già rovente. Con effetti potenzialmente destabilizzanti non solo per la tenuta e il ruolo terzo del Quirinale, ma anche per l’attuale governo. E questo proprio quando gli sforzi (e i sacrifici in termini di consenso) dei partiti che appoggiano il gabinetto dei tecnici si fanno più pesanti per l’elettorato di riferimento.
Questo scenario è stato attentamente valutato al Quirinale. Sin dal giorno in cui sono uscite le prime indiscrezioni sulle intercettazioni ordinate dalla Procura di Palermo e sulla conseguente irritazione del Colle (vedere Panorama del 27 giugno scorso). Napolitano ritiene che il deposito delle intercettazioni che lo riguardano violi le prerogative presidenziali e che il pm debba immediatamente chiederne al giudice la distruzione (vedere riquadro a pagina 64). Da qui la sua decisione di sollevare il conflitto di attribuzioni di fronte alla Corte costituzionale. Mossa che «costringe» la Procura di Palermo a rispettare l’obbligo di non depositare le intercettazioni, sulle quali, almeno fino a quando non ci sarà il pronunciamento, penderà il sospetto di illegittimità costituzionale. E poiché è improbabile che la Consulta affronti il problema in tempi rapidi (in settembre è atteso solo un primo via libera per l’ammissibilità del quesito), la decisione potrebbe arrivare a ridosso o dopo le prossime elezioni politiche (febbraio o aprile 2013), magari con un nuovo inquilino al Quirinale. Quando cioè le frasi di Napolitano, se fossero rese pubbliche, risulterebbero comunque prive del loro attuale potenziale esplosivo.
Queste valutazioni non sono estranee al conflitto emerso all’interno del quotidiano La Repubblica con gli interventi dell’ex presidente della Consulta, Gustavo Zagrebelsky, critico nei confronti della decisione di Napolitano, e di Eugenio Scalfari, che invece ne ha difeso la decisione di sollevare il conflitto di attribuzioni. Una rumorosa battaglia di punti di vista (vedere anche l’articolo a pagina 68) in un ambiente che finora si era sempre schierato in modo compatto e quasi ideologico a difesa delle iniziative della magistratura, a volte anche di quelle più azzardate.
Zagrebelsky è parso andare a rimorchio della campagna lanciata dal Fatto quotidiano e da Di Pietro a sostegno dei pm palermitani. Il fondatore del quotidiano, che ha sempre avuto un filo diretto e di profonda amicizia con Napolitano, sa molto bene invece a quali rischi andrebbe incontro il Paese se venissero pubblicate le conversazioni private del presidente. Ne è sembrato consapevole lo stesso successore di Scalfari, Mauro. Il quale, sfidato dal direttore del Foglio Giuliano Ferrara a dire da che parte stesse, se con l’amico Zagrebelsky o con Scalfari-Napolitano, ha appunto citato il «caso di scuola», seguito a ruota da Sofri e da Travaglio: certamente il più grande amico e sodale, mediaticamente parlando, di Ingroia.