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Europee 2019: i governi in bilico nell'Ue

Inizia la resa dei conti interna dopo il voto del 23-26 maggio. E Vienna miete la prima vittima

Il primo a pagare pegno dopo le europee è stato Sebastian Kurz. Il giovane cancelliere austriaco, uscito solidamente in sella al governo del paese con il 34,90 per cento di consensi in queste elezioni (oltre sei punti in più rispetto alla tornata europea del 2014 e almeno tre rispetto alle ultime politiche del 2017), è caduto poche ore dopo la fine dello spoglio delle schede, vittima dell’ ormai ex fuoco amico. Si tratta della prima volta nella storia repubblicana dell'Austria.

Contro Kurz, una mozione di sfiducia dell'opposizione.

Già a scrutini ancora in corso Norbert Hofer, divenuto leader ad interim del Freiheitliche Partei Österreichs in seguito alle dimissioni del collega di partito nonché vicepremier di governo Heinz-Christian Strache, aveva annunciato il sostegno del suo schieramento alla mozione di sfiducia contro l'esecutivo in carica presentata dall'opposizione della SPÖ. E ora è crisi anticipata.

Appena due settimane fa l'ultradestra austriaca, travolta dallo scandalo Ibiza-gate che ha visto coinvolto Strache in una vicenda di corruzione con una sedicente nipote di un magnate russo, aveva fatto un passo indietro, facendo ritirare tutti i suoi uomini nel governo. Il trentunenne Kurz aveva reagito convocando nuove elezioni a settembre. Ma non è riuscito ad arrivarci, nonostante le urne di domenica 26 maggio abbiano punito gli altri partiti: la FPÖ ha preso solo il 17,20 per cento di voti rispetto al 25,9 delle politiche di ottobre 2017 e la SPÖ, con il 23,4 per cento, è arretrata di oltre tre punti. Mentre i Verdi, con il 14 per cento hanno ottenuto una buona prestazione anche a Vienna. Così, forse guardando anche in questa direzione, la guida del Sozialdemokratische Partei Österreich Pamela Rendi-Wagner ha incalzato e fatto cadere Kurz, reo di non aver trovato una soluzione stabile per il dopo FPÖ.

With or without you. Regno Unito sull'orlo di una «hard Brexit».

Terremoto anche a Londra, dove Theresa May aveva già annunciato le sue dimissioni all'indomani delle europee tenutesi giovedì 23 maggio. La premier britannica è reduce dalla più sonora batosta elettorale in seguito alla disastrosa gestione della Brexit. I Tories al governo sono drammaticamente sprofondati al quinto posto, con appena l'8,68 per cento di consensi rispetto al 42,3 delle ultime politiche di giugno 2017: il peggior risultato di sempre. Male anche l'opposizione laburista di Jeremy Corbyn, che invece di capitalizzare il suo ruolo ha troppo a lungo ondeggiato fra pro e contro la Brexit, crollando al 14,08 per cento (era al 40 per cento due anni fa), solo una spanna sopra il Green Party (anche fra i britannici l'onda verde coagula l'11,10 per cento di elettori).

La vera parte del leone, però, l'ha fatta Nigel Farage dato praticamente per morto con il suo vecchio partito Ukip e risorto a nuova vita con il neonato Brexit Party, che diventa il primo partito con il 31,69 per cento dei voti e può occupare ben 28 posti nell'Aula di Strasburgo. Farage si piazza anche davanti ai Lib Dem, tradizionalmente terza gamba dello scenario politico inglese. Che, tuttavia, con il 18,53 per cento di voti (e la più grande affermazione nella capitale Londra) assurgono al ruolo di pionieri del fronte europeista. I partiti per il Remain, insieme, ottengono il 40,4 per cento di voti mentre quelli per il Leave solo 34,9.

May passerà il testimone il 7 giugno. Già, ma a chi? I nomi che circolano per la successione alla guida dei Tory sono quelli dell'ex ministro degli Esteri e un tempo sindaco londinese Boris Johnson e di Andrea Leadsom, ministra dei lavori parlamentari dimessasi in polemica con la premier uscente. Entrambi sono favorevoli a un'uscita del Regno Unito dall'Ue con o senza intesa e guardano la nuova data della Brexit, il 31 ottobre, come l'ultima tappa per uscire dalla paralisi che dura da tre anni. Le elezioni primarie per la nuova guida di partito andranno avanti fino a metà giugno. Ma i Conservatori riusciranno a imporre un altro premier con numeri così bassi, evitando nuove elezioni?

Cade il mito di Tsipras.

In caduta libera anche Alexis Tsipras. Il suo partito, Syriza, sprofonda nel consenso al 23,7 per cento ben dieci punti sotto al 33,3 dei conservatori di Nea Demokratia. Ma va male anche per la sinistra tradizionale: i socialisti di Kinal, eredi dello storico Pasok, si sono arrestati al 7,7 per cento seguiti dai comunisti del Kke al 5,5.

Male, però, anche l'estrema destra di Alba Dorata, un tempo terzo partito in Grecia, che passa la soglia dello sbarramento (al 3 per cento) ma si ferma al 4,8 cedendo terreno alla nuova formazione nazionalista, Soluzione Greca, che sfiora la stessa percentuale.

Il capo del centrodestra Kyriakos Mitsotakis ha già costretto Tsipras a prendere posizione, anticipando il ritorno alle urne inizialmente previsto per ottobre. I greci andranno di nuovo al voto il 30 giugno e sarà la sesta volta dal 2012. Ma il mercato, per ora, ha accolto bene l'annuncio.

Per Tsipras, incoronato a furor di popolo per aver indossato i panni di paladino contro il rigore di Bruxelles nella fase di massima crisi e finito suo malgrado ad attuare i dolorosi piani di salvataggio europei, si profila anche un ripensamento di aspirazioni personali. Prima delle europee si parlava di un incarico a Bruxelles, ma l'esito del voto rimetterà in discussione anche il futuro del premier uscente.

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Anna Maria Angelone