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Modello cinese o protettorato vaticano? Cuba si interroga sul futuro

Il ruolo di Raul e le prospettive dell'Isola caraibica dopo il disgelo con gli Stati Uniti

La questione è semmai simbolica. Perché, per quanto quello tra Raul e Fidel sia stato un sodalizio politico e familiare di ferro e che agli esordi era semmai Raùl il più filosovietico dei due fratelli Castro, la sola presenza di Fidel al vertice del potere cubano - con la sua gestualità, la sua retorica barricadera, il suo brand, il suo carico di ricordi  - non avrebbe consentito a Obama di fare quel passo, di superare quelle resistenze interne al cambiamento ancora molto forti tra le vecchie generazioni di cubani e latini fuggiti da Cuba negli anni della guerra fredda. Via (volontariamente) Fidel da Cuba, marginalizzati i vecchi leader democratici e repubblicani cresciuti negli anni della contrapposizione tra Est e Ovest, tutto si è rimesso in moto, per sino la Storia. Raul e Obama si sono stretti la mano. E Cuba ora, Congresso americano permettendo, può guardare avanti.

Cuba dopo Cuba
La domanda in realtà è: in quale direzione? Una delle ipotesi che circolano più frequentamente è che il regime cubano possa decidere, per evitare una resa incondizionata all'american way of life o se volete per salvare la faccia della Revoluciòn, di consegnarsi nelle mani degli emissari del Vaticano, diventato dopo l'elezione dell'argentino Bergoglio una sorta di Casa Bianca dei popoli latinoamericani, un contraltare simbolico e politico allo strapotere dell'ingombrante vicino settentrionale. Non è un mistero che il disgelo è stato reso possibile grazie al lavoro di cucitura della diplomazia vaticana, cui il regime cubano guarda con simpatia, o comunque con condiscendenza, almeno dal 1997, anno in cui Wojtyla e Fidel si strinsero le mano.

Un'altra ipotesi accarezzata dal regime cubano è quella cinese: un modello di capitalismo dirigista e autoritario, in stretta associazione con gli imprenditori e i governi di mezzo mondo, che è già diventato l'esempio da seguire per molte Tigri asiatiche.  Qualche segnale in questa direzione ci sarebbe già, e non solo perché gli investimenti cinesi sono cresciuti a dismisura in questi anni nell'isola, ma anche per ragioni interne. Dal novembre scorso, ben prima che fosse reso pubblico l'accordo tra Washington e L'Habana per lo scambio dei prigionieri, il parlamento cubano ha autorizzato tutti i cittadini e gli stranieri residenti nell'Isola ad acquistare e vendere immobili e case di proprietà. Una misura, a sua modo rivoluzionaria,  che si aggiunge a quella, decisa sempre dal governo cubano, di concedere il diritto (previo nulla osta ministeriale) all’acquisto di veicoli nuovi pagabili in dollari o in pesos convertibili. A proposito di simboli: le auto sovietiche della mitica marca Lada non saranno più padrone delle strade dell’isola in futuro.

Non solo: dopo i licenziamenti di massa nel deficitario settore pubblico  che hanno riguardato a partire dal 2010 circa 500 mila persone, e la contestuale liberalizzazione di 178 tipologie di piccoli esercizi commerciali e agricoli che ha permesso già oggi a quasi mezzo milioni di cubani di lavorare in proprio, Cuba ha deciso di ridurre fortemente nei primi mesi del 2015 le restrizioni a viaggiare per i suoi concittadini.


È davvero immaginabile un modello politico ed economico che non incontri il favore del vicino settentrionale? È realistico immaginare, come suggerivano un tempo i nostalgici de La Revoluciòn, il ritorno a una Cuba «bordello degli Stati Uniti» come ai tempi di Batista?

Il tutto dovrebbe  consentire, nelle intenzioni della gerontocratica classe dirigente cubana, di giocare su più tavoli geopolitici (con Pechino, con Mosca, con Washington) e al contempo salvare quei principi di welfare state - che riguardano essenzialmente sanità e scuola - cui la gran parte dei cubani, specie i più poveri, non vogliono rinunciare. Il problema, quando si parla di tropicalizzazione del modello cinese, è insomma un altro: la Cina è un grande Paese di quasi un miliardo di persone ed è ricca di risorse. Cuba è un'Isola popolata da 11 milioni di abitanti - con un tasso di mortalità e fertilità tra i più bassi di tutto l'emisfero occidentale - che si trovano a un tiro di schioppo dalle coste della Florida.

L'incubo fidelista
Che cosa accadr à dopo il pugno di ferro e la propaganda fidelista? È davvero immaginabile un modello politico ed economico che non incontri il favore del vicino settentrionale?  È realistico immaginare, come suggerivano un tempo i nostalgici de La Revoluciòn, il ritorno a una Cuba «bordello degli Stati Uniti» come ai tempi di Batista? Forse non è cambiata solo Cuba. Sono cambiati, e stanno cambiando, anche gli Stati Uniti e quell'incubo tenuto in vita per 55 anni dalla propaganda fidelista - un'isola appaltata alle mafie piena di casinò e luogo di riciclaggio del denaro sporco nordamericano - appartiene a un'altra epoca. Che tutti, Washington compresa, vogliono lasciarsi definitivamente alle spalle.

La stretta di mano

MANDEL NGAN/AFP/Getty Images
Il presidente cubano Raul Castro si sistema le cuffie durante la cerimonia di apertura del Summit delle Americhe a Panama

Il disgelo tra Stati Uniti e Cuba sarebbe stato possibile se, al posto di Raul, ci fosse stato suo fratello Fidel? E se, alla Casa Bianca, fosse stato eletto nel 2008 non il (relativamente) giovane Barack Obama, ma un leader anche democratico ma segnato dall'epopea della guerra fredda, che cosa sarebbe successo? Queste domande potrebbero apparire oziose, come quelle che si pose qualche anno fa lo storico americano Robert Cowley, autore di un saggio di straordinario successo (La storia si fa con i se) che è diventato, contro la vulgata storiografica corrente, oggetto di un vivace dibattito tra le università e storici contemporanei. Che cosa sarebbe successo se Fidel fosse ancora in sella? Staremmo qui a discutere del disgelo?

Il simbolo di Fidel
La risposta è che probabilmente no, non si fosse ritirato a vita privata, e fosse stato ancora al potere, la sua sola presenza avrebbe di fatto impedito un riavvicinamento tra Washington e L'Habana.  Lo avrebbe di fatto reso impossibile, anche a prescindere dalle intenzioni soggettive degli interlocutori. Le ragioni non sono solo legate alla presunta maggior flessibilità ideologica di Raul rispetto a suo fratello Fidel, su cui si è esercitata buona parte della stampa internazionale. Né al fatto, stracitato, che l'ex Lìder Màximo abbia ribadito in una lettera testamento pubblicata sul quotidiano del partito, all'indomani dello scambio di prigionieri tra Cuba e Stati Uniti, la sua profonda diffidenza verso l'impero nordamericano, della cui politica - ha scritto - «non nutro alcuna fiducia».


Tutti gli uomini di Fidel

Getty Images
1960. Ernest Hemingway consegna a Fidel castro tre premi per altrettante gare di pesca.

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Paolo Papi