Il 'testamento' di Francesco Di Maggio
L'ultimo intervento pubblico dell'ex numero 2 del Dap, al Meeting di Rimini del 1994
QUELLO CHE SEGUE È il discorso fatto nell’agosto del 1994 da Francesco Di Maggio, a quel tempo numero due del Dipartimento dell'amministrazione penitenziaria, al Meeting ciellino di Rimini, quando era ancora in numero 2 del Dap. Può essere presentato come il suo “testamento” sul 41 bis, sulle bombe del 1993, su Totò Riina. E anche sulla presunta "trattativa" fra stato e mafia.
di Anna Germoni
Ecco il testamento del giudice Francesco Di Maggio. Il suo nome viene legato dai magistrati siciliani nell’inchiesta sulla trattativa con la mafia, come responsabile dell’allentamento del carcere duro per i boss, favorendo così, secondo le ipotesi accusatorie della Procura di Palermo, il presunto accordo fra uomini dello Stato e capimafia.
L’ex giudice, che ha combattuto mafia e malavita, è morto nel 1996, ma il 21 agosto 1994, a Rimini, al convegno organizzato da Comunione e Liberazione, dal titolo “Droga e carcere: è possibile la speranza?”, è ospite del meeting romagnolo, in qualità di vice capo del Dap, il Dipartimento dell’amministrazione penitenziaria. Di fronte ad una platea vastissima, Di Maggio parla per 40 minuti, lasciandoci indelebilmente il suo testamento. È relatore insieme a Don Antonio Mazzi, fondatore della Comunità Exodus, a Don Oreste Benzi, morto nel 2007 e fondatore della Comunità Papa Giovanni XXIII, e all’onorevole Alberto Garocchio. Parla di fronte a illustri ospiti di tutto il mondo politico, giuridico, religioso e del volontariato.
Il discorso del numero due del Dap tocca tutte le corde del mondo carcerario: la corretta amministrazione dello Stato, il concetto di legalità, il regime carcerario “duro” del 41 bis, Totò Riina, le bombe mafiose del 1993, il reinserimento lavorativo dei detenuti, fino alla differenziazione dei circuiti penitenziari e agli sperperi. Quell’intervento pubblico, ora, diventa la sua eredità di fronte alle accuse mosse dalla Procura di Palermo di aver alleggerito le pene ai boss in regime di carcere duro. Una testimonianza autentica e impressionante, perché Di Maggio, senza poterlo sapere, tutela la sua memoria proprio in quel convegno, lasciandoci il suo testamento.
Ecco cosa dichiara con tono fermo e deciso, in quella giornata afosa del 21 agosto 1994, sul senso dell’amministrazione dello Stato:
“Qui bisogna ribadire chiaro e netto che bisogna riscoprire il gusto dell’Amministrazione. Lo Stato si serve, la comunità si serve e dello Stato non ci si serve. Possiamo cambiare tutti i politici che vogliamo, ma se non mettiamo mano seriamente ad un’opera di rifondazione culturale dell’Amministrazione dello Stato, saremo sempre punto e daccapo. A me importa davvero poco che il politico faccia le sue scelte strategiche le faccia come meglio crede. Io ho un riferimento preciso che non posso in alcun modo eludere, né scavalcare: ed è la legalità. Non esiste amministrazione seria, efficiente, culturalmente compresa, consapevole dei propri problemi, se chi la rappresenta non abbia per certo, che ogni giorno che manda il buon Dio, deve essere una testimonianza in difesa della legalità. Qualunque sia la posizione del politico, qualunque sia la scelta di strategia politica. A me importa poco che ci siano i vecchi o i nuovi governanti, io ho un punto di riferimento preciso, la legalità. Se mi si chiedono strappi alla legalità, non posso che evidentemente fare le mie scelte conseguenti e dire:”Signori non ci sto. Me ne vado”. Se queste richieste non mi vengono fatte, resto e faccio il mio dovere. E difesa della legalità significa esattamente dire cosa succede. Ho l’impressione che ogni volta che si affronti il problema del penitenziario, lo si affronti senza conoscere assolutamente alcunché del penitenziario. Io vorrei che tutti coloro che parlano delle carceri italiane prima facessero il giro delle carceri italiane. E siccome mi è stato attribuito anche se idealmente il “premio Auschtwiz 1994”, perché succede anche di questo a lavorare, vorrei darvi i dati minimi dei rapporti tra amministrazione penitenziaria e mondo dei media. Abbiamo concesso nel primo semestre del 1994, 310 autorizzazioni all’accesso in carcere a giornalisti di testate televisive e della carta scritta, pari a due autorizzazioni al giorno. Nel primo semestre 1993 fino a giugno, erano state accordate 190 autorizzazioni. Un incremento che sfiora il 65 per cento. Il penitenziario italiano per la prima volta nella sua storia, è visibile a tutti, a tutti coloro che ne abbiano fatto richiesta. Alla faccia del “premio Auschtwiz”! Noi abbiamo l’interesse diametralmente opposto, cioè di far conoscere il più possibile la tragedia che si consuma all’interno del mondo penitenziario, perché da questa conoscenza nasca una consapevolezza meditata della drammaticità di questi problemi ed un sostegno conveniente dell’opinione pubblica. E ci sono entrati di tutti in carcere: Mixer, Rosso e Nero (programma tv condotto da Michele Santoro n.d.r.), Linea Notte, anche trasmissioni di evasione: Stranamore, Amici, Videomusic, Linea Verde, Geo. Abbiamo avuto nove dirette televisive E da questa visibilità cosa emerge? Una situazione drammatica ma che può essere spinta a soluzione”.
L’ex giudice poi affronta il tema del 41 bis e delle bombe del 1993. Ecco il suo testamento:
”Strepitano tutti sul trattamento riservato ai detenuti differenziati ex 41 bis dell’ordinamento penitenziario, (i mafiosi cattivissimi come li chiamo io). Ma qualcuno ha avuto il coraggio di dirvi che si tratta di una norma a termine e che il famoso decreto Scotti-Martelli va a scadere il 7 agosto 1995 con buona pace di tutti i garantisti vecchi e nuovi? Ma questo è un modo serio di affrontare i problemi? Si può continuare a turlupinare l’opinione pubblica forzando polemicamente su temi che non esistono? Ma vogliamo dire qual è per esempio il rapporto tra detenuti sottoposti a regime differenziato ex articolo 41 bis e numero di collaborazioni processuali in delitti di mafia importanti? Quando parla Tommaso Buscetta, Buscetta parla di archeologia della mafia, è un “come eravamo” del mafioso. Ma se sottoposto al regime di differenziazione ex 41 bis comincia a parlare il mafioso che ha messo la bomba sulla 126, che è stata usata per far saltare Paolo Borsellino e la scorta. Se ex 41 bis parla l’autore materiale, anzi parlano due degli autori materiali, della Strage di Capaci, ecco che i giochini probabilmente non tornano più. Qualcuno ha mai legato l’efficacia di questa normativa a questi risultati che sono stati ottenuti? No, giochiamo sul fatto che è afflittivo. È lteriormente afflittivo il fatto di dover fare i colloqui con lo schermo di vetro che non consente al mafioso di toccare la mano dei propri bambini. Ma vorrei dire, senza per questo sollecitare in alcun modo la voglia di ghigliottina che c’è al di fuori delle carceri, perché io per la parte che mi compete, ho tentato sempre di contrastare, vogliamo ricordarci dei padri, delle madri, delle mogli, della vedova Schifani e di tutti gli altri che sono morti che quelle mani non possono più toccare? E questo mi consente di dire con estrema chiarezza che in carcere non c’è soltanto l’umanità dolente, non ci sono soltanto gli emarginati, non ci sono soltanto i vinti e i poveri. In carcere ci sono anche categorie, per la verità minime,rispetto alla stragrande maggioranza della popolazione penitenziaria che non vogliono nessuno tipo di relazione di recupero, che tentano solo ed esclusivamente di conquistare spazi per continuare ad operare all’interno, gestendo dall’interno il territorio. Se questo è vero, perché non lo dico io, basta prendere gli atti già pubblici delle ultime istruttorie condotte a Palermo e a Caltanissetta, ci sono interi capitoli dedicati alla strategia di Cosa nostra per abbattere il 41 bis. Le bombe, è processualmente dimostrato, di via Fauro (attentato a Maurizio Costanzo n.dr.) e di via dei Georgofili, rappresentano un momento violento, sanguinoso sulla base di questa strategia. E un’amministrazione corretta deve porsi il problema della differenziazione dei circuiti carcerari. Ne parla già una legge dello Stato, del 1975, che impone all’amministrazione di differenziare i circuiti; che i condannati non possono stare con i detenuti in attesa di giudizio; che i giovani non possono stare con gli adulti; che i pericolosi non possono stare con i condannati o in attesa di giudizio per fatti bagatellari. A fronte di questo c’è invece una confusione strutturale all’interno del penitenziario, che non ha probabilmente simili”.
Il numero due del Dap, denuncia anche le gravi lacune della gestione penitenziaria e i provvedimenti di clemenza “svuota carceri”.
“Se la linea di tendenza” - dice alla platea “è avere 50 mila detenuti che debbono essere gestiti secondo i parametri della civiltà occidentale, i migliori da immaginare, dovrei sistemarne uno per ogni cella, che è costata all’erario 450 milioni, un posto detenuto 450 milioni. Villetta schiera, quattro piani, piano hobby. Così è stato amministrato questo Stato! Laddove l’ufficio tecnico del dipartimento dell’amministrazione penitenziaria riferisce tecnicamente e dimostra che per costruire un posto cella, tutto compreso, ivi compresa anche la caserma degli agenti, le sale polivalenti e quanto altro bastano 70 milioni. Ma giustamente l’amministrazione penitenziaria non può occuparsi di questo problema, perché deve occuparsene un altro dicastero. Dopodiché caricando il tema del penitenziario in termini di ideologia si ribalta il problema e allora abbiamo fatto la rincorsa ai provvedimenti di clemenza e siamo da capo a 15”.
Di Maggio spiega poi l’esperimento da lui avviato, costituendo insieme alla Regione Lombardia, Compagnia delle Opere, Gruppo Abele di don Ciotti, gruppo Exodus di don Mazzi, una società, la Spes, Servizi Penitenziari di Solidarietà, con la maggioranza di capitale sociale degli enti pubblici, a cui chiedere le commesse nel comparto dell’informatica per far lavorare i detenuti, anziché i privati. Infine conclude il suo intervento, parlando di un penitenziario a tre velocità, di Riina, in modo inequivocabile, e annunciando alla platea del meeting di Rimini le sue dimissioni, maturate per la delusione del conferimento del “premio Auschwitz” da parte del mondo politico garantista. Riconoscimento, anche se virtuale, non certamente di stima da parte di alcuni parlamentari e se vogliamo, quell’onorificenza così mediocre e sgarbata, racchiude proprio il concetto opposto, di “malleabilità” ipotizzata oggi dalla Procura di Palermo nei confronti dell’ex giudice.
Ecco il suo intervento conclusivo:
“Il futuro del penitenziario è a tre velocità, a 3 circuiti: il circuito di chi non vuole sperare e che deve restare condannato alla sua sorte, perché non bisogna avere paura delle parole. Se il signor Riina vuole continuare a comandare Cosa nostra, non vuole venire dalla parte dello Stato e della legalità, può stare là dov’è: la coscienza non mi rimorde! Mi rimorde invece la coscienza per i tossicodipendenti, che non sono aiutati; per i condannati a pene bagatellari, che non hanno nessun tipo di aiuto e sono invece confusi in questa massa infernale, in mezzo a tutti gli altri. Ai circuiti più bassi bisogna aprire il carcere, aprirlo verso l’esterno. Impegniamo per esempio la conferenza Stato e Regioni ad affrontare questo problema, sotto il profilo del lavoro. La progettualità si scontra però con la burocrazia. Il burocrate non penserà mai in questi termini, perché è completamente al di fuori dei valori culturali. Questa è la verità, questo è il limite, che non vale soltanto per il penitenziario, ma vale per tutti. E avendo vinto il “premio Auschtwitz” 1994, che era la cosa che agognavo di più, tra qualche settimana lascio l’amministrazione penitenziaria”.
Questa è la sua testimonianza, autentica di “quel senso di Stato”, dove il motto è “o si sta di qua, o si sta di là”. Questo era Francesco Di Maggio.