Tarzia: «Frociaggine, battuta ingenua, Papa Francesco non ha nulla contro gli omosessuali».
Per Fabio Tarzia, sociologo delle religioni e mediologo alla Sapienza di Roma, «tra le possibili spiegazioni sull’utilizzo della frase incriminata spiccano la provenienza di papa Francesco dall’ordine dei Gesuiti e una vera e propria battaglia che sta combattendo all’interno della Chiesa contro una potente lobby conservatrice».
Continua a far discutere l’espressione usata da Papa Francesco secondo cui nei seminari “c’è già troppa frociaggine”, che avrebbe pronunciato nel corso di una riunione informale della Conferenza Episcopale Italiana lo scorso 20 maggio, innanzi a circa 200 vescovi. Papa Francesco avrebbe esortato i presenti a non ammettere all’interno dei seminari, per la formazione teologica e umana dei sacerdoti, chi fosse palesemente omosessuale. Quell’espressione, certamente più che colorita se pronunciata in questo ambito, continua ad animare il dibattito pubblico, anche se da quanto si è appreso, ambiente e toni usati fossero particolarmente informali e colloquiali. E’ poi accaduto che tale contesto verbale, destinato in ogni caso a rimanere assolutamente interno al parlamento dei vescovi, sia stato portato all’esterno e comunicato anche a testate nazionali che, nei loro lanci giornalistici, hanno confermato questa singolare vicenda: in realtà l’espressione utilizzata si mostra in contrasto con la forte apertura che proprio Papa Francesco ha sempre manifestato nei confronti degli stessi omosessuali dichiarati e di quanti appartengano, a vario titolo, alla comunità LGBT+. Posizione, questa, inaugurata sin da quando salì al Soglio pontificio nel 2013, e ribadita di recente con l’affermazione “Tutti sono chiamati a vivere la Chiesa”, evidentemente inclusiva ed esplicativa di come ci sia stata una diversa interpretazione della dottrina relativa alla transessualità.
Professore Tarzia, un commento «a mo’ di battuta» per alcuni, un po’ inconsapevole per i vescovi presenti: e così sull’espressione «frociaggine» sembrano non placarsi le polemiche.
«Ha fatto scalpore il termine utilizzato, quando in realtà dovrebbe fare ben più effetto il senso del discorso di Francesco. Il termine che le cronache dicono essere stato pronunciato, ovvero “frociaggine”, è tipicamente romano. Del resto, non dimentichiamo che quando si presentò al mondo, dopo l’elezione al soglio pontificio, il 13 marzo del 2013, si dichiarò subito Vescovo di Roma, non solo per sottolineare il titolo formale secondo il diritto canonico ed ecclesiastico, quanto, soprattutto, l’idea ben chiara di una Chiesa federale e non centralizzata. Ecco, diciamo che papa Francesco si è subito “romanizzato” proprio nel linguaggio, e quell’espressione, in un certo senso, lo dimostra».
Si parla, da giorni, di un’espressione da “politicamente scorretto”…
«Il Papa ha utilizzato un termine che oggi, nella c.d. sfera pubblica, non si usa assolutamente, se non in determinati ambienti, che non sono certamente quelli del Vicario di Cristo, per intenderci. Questo profilo è interessante: non dimentichiamo, infatti, che Francesco è un Gesuita, pur avendo scelto per sé, dopo l’elezione al soglio papale, il nome di Francesco, quindi di un santo con una ben specifica tradizione nella Chiesa cattolica, ma altro rispetto all’ordine da cui Bergoglio proviene. I Gesuiti si caratterizzano per avere un contatto con la realtà del tutto particolare, che non trova pari in nessun altro ordine ecclesiastico».
Professore, questo profilo ci interessa!
«Sin dal Cinquecento, la caratteristica portante dei Gesuiti sta tutta nella loro capacità di calarsi nel territorio, di adeguarsi alle usanze locali. Non è un caso che i successi più forti, nel corso della storia, i Gesuiti li abbiano ottenuti in America latina, dove si sono praticamente mimetizzati con le popolazioni indigene, come la storia e la cinematografia ci hanno sempre rappresentato. Sono passati alla storia per aver accettato rituali autoctoni, inserendoli addirittura nel culto generale della Chiesa cattolica. Voglio cioè dire che i Gesuiti possiedono una capacità pratica di muoversi nella società, integrandosi perfettamente con l’ambiente socio-culturale con cui vengono a contatto, che non è possibile ritrovare in nessun altro ordine ecclesiastico. L’uso di un linguaggio locale e reale fa dunque parte della loro formazione e della loro strategia».
Insomma, per i Gesuiti è un marchio di fabbrica!
«Eh, praticamente sì. E’ la loro visione di diffondere il Verbo, il messaggio fondamentale di Cristo e della fede cristiana, e per fare ciò è spesso necessario giungere ad alcuni compromessi, come adeguarsi alle realtà sociali, politiche e culturali che di volta in volta essi incontrano. E quindi anche di adeguarsi al linguaggio parlato nelle diverse aree di contatto».
Professore, la sua è una spiegazione sociologica, certo, ma essendo anche un mediologo, capirà che l’utilizzo di quel termine ha lascito tutti di sorpresa, diciamo…
«Francesco già in molte occasioni ha dimostrato l’utilizzo di un linguaggio molto informale, “quotidiano”, per il semplice motivo che la sua è un’idea di Chiesa calata nel mondo -il famoso “ospedale da campo dopo la battaglia” - nella miglior tradizione gesuita. Non esiste per Francesco la contrapposizione tra “Noi e Loro”, ovvero quella tra l’Occidente, cioè la Chiesa, e il mondo da attraversare e convertire, ma esiste una realtà messa a dura prova da ogni sorta di conflitto (bellico, sanitario, alimentare…) in cui la Chiesa deve comportarsi esattamente come un “ospedale da campo”, cioè un luogo in cui entrare e farsi curare le ferite sanguinanti».
Certo, ma Francesco avrebbe pronunciato quell’espressione nel corso di una riunione, pur se informale, della Conferenza Episcopale Italiana. Davanti aveva 200 vescovi…
«Francesco, con quell’espressione, ha voluto farci capire che stava parlando all’interno della Chiesa, in un ambiente protetto e intimo, interfacciandosi direttamente con i vescovi, cioè con le guide della Chiesa particolare. Forse potrebbe aver commesso un’ingenuità, non linguistica, ma “politica”. Egli sapeva benissimo che all’interno di quel consesso si stava confrontando con diversi prelati a lui ostili, anzi direi proprio acerrimi nemici, come il nutrito gruppo di conservatori tradizionalisti che gli stanno portando, dall’interno, una guerra formidabile. Negato ufficialmente, ma lo scontro esiste».
Allora era inevitabile che quell’espressione venisse divulgata all’esterno ed utilizzata contro Francesco…
«Ecco: Francesco è stato ingenuo non dal punto di vista linguistico ma “politico”. E’ stato poco Gesuita, in pratica…».
A proposito di scontri interni, il suo ultimo saggio non lascia spazio all’immaginazione sin dal titolo: Benedetto contro Francesco.
«La mia ultima ricerca, evidentemente, non si riferiva al solo scontro ideologico tra i due papi o, al più, a quello in corso tra i porporati sostenitori dell’una o dell’altra fazione, ma ricostruisce lo scontro risalente praticamente ai Vangeli. Da un lato l’idea di un cristianesimo apocalittico e chiuso, limitata ai soli cristiani, e dall’altro quella di un cristianesimo più “francescano”, aperto, di conquista. Nella storia del cristianesimo, San Benedetto da Norcia e San Francesco d’Assisi ne sono l’emblema e la mia opinione è che anche i due ultimi papi, Benedetto XVI e Francesco, in qualche modo rappresentino questa dicotomia».
Conservatore contro progressista, diremmo…
«La terminologia può apparire riduttiva: Benedetto XVI, cioè papa Ratzinger, è stato un conservatore di altissimo livello dottrinale, dotato della grande capacità di tenere insieme il corpo della Chiesa. Con la sua “battuta”, Francesco ha voluto colpire -ne sono convinto- quella parte marginale ma molto agguerrita della Chiesa cattolica tradizionalista, cioè quella risalente al cardinal Marcel Lefebvre, tra i più influenti cattolici in questo senso, oppositore di tutte le riforme del Concilio Vaticano II. Questo tradizionalismo, ad esempio, oggi è molto forte negli Stati Uniti, da dove provengono gli attacchi più forti portati a Francesco. Vescovi e cardinali statunitensi sono conservatori dogmatici, in campo morale e sessuale».
Ha l’impressione, allora, che la battuta di Francesco si rivolgesse anche a loro, polemicamente?
«Riguarda sicuramente alcuni aspetti interni e deteriori della Chiesa cattolica, e non è una battuta contro gli omosessuali, per come è stata letta dall’opinione pubblica e dai mezzi di comunicazione. Anche perché sappiamo bene che Francesco ha più volte, pubblicamente, preso le loro difese, come quella volta in cui affermò, di fronte ai giornalisti, lo scorso luglio, durante il viaggio di ritorno da Rio, “Chi sono io per giudicare un gay?”».
E allora?
«La Chiesa deve essere accogliente: Francesco non è contro gli omosessuali, quanto, piuttosto, contro un certo mondo all’interno della Chiesa che probabilmente gli è ostile e contro cui sta combattendo da molti anni».
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Fabio Tarzia, romano, classe 1965 è associato presso il Dipartimento di Storia, Antropologia, Religione, Arte, Spettacolo della Facoltà di Lettere e Filosofia della “Sapienza - Università di Roma” dove insegna Mediologia, Sociologia dell’immaginario e Sociologia delle religioni. Allievo in Letteratura italiana di Alberto Asor Rosa, è direttore del Master in “Gestione per la valorizzazione del Patrimonio Culturale” I suoi interessi di ricerca orbitano attorno al nodo del rapporto tra immaginari, religioni, media e società. Dopo il Dottorato di ricerca in “Nascita, formazione e sviluppo della letteratura di massa e di consumo” presso l’Università di Trieste, ha insegnato presso la facoltà di Scienze della comunicazione dell’Università di Urbino. Esperto in mediologia delle religioni, sul tema ha pubblicato Religioni nella metropoli. Tra fondamentalismo e consumo (Manifestolibri, 2018) e Benedetto contro Francesco. Una storia dei rapporti tra cristianesimo e media (Meltemi, 2022).