Gerusalemme, Trump ha già abbandonato l'idea dell'accordo di pace
La decisione sulla capitale di Israele rivela velleità e inesperienza del team che avrebbe dovuto occuparsi di portare a casa "l'accordo del secolo"
Avventata e difficile da giustificare la scelta di Trump di spostare l'ambasciata Usa a Gerusalemme. Ma anche complicata da spiegare.
Certo non sarà questa mossa a mettere fine al processo di pace, visto che da anni non esiste più.
NESSUN (VERO) PIANO DI PACE NELL'AGENDA DI TRUMP
È però strano, come da più parti viene osservato, che Trump tolga in partenza un argomento di pressione sulle parti, come lo status di Gerusalemme, fra le carte da gioco a disposizione dei negoziatori del promesso, strombazzato, "piano di pace definitivo".
A meno che, come è stato sottolineato, Trump e i suoi si siano resi conto dell'impossibilità di arrivare a quell'"accordo del secolo" che avevano promesso, e quindi si chiamino fuori. Concedendo però una importante vittoria simbolica alla parte che sentono più vicina: la destra israeliana di Benjamin Netanyahu.
RISENTIMENTO ANTI-USA
La decisione su Gerusalemme genererà comunque ancora più risentimento anti-americano fra una parte delle popolazioni islamiche; e probabilmente darà più fiato agli estremisti fra i palestinesi; e l'Autorità nazionale palestinese sarà meno credibile.
VIOLENZA IN ISRAELE E NELLA WEST-BANK
Secondo alcuni osservatori, produrrà anche una nuova ondata di violenze palestinesi: frutto dell'ulteriore disperazione per l'allontanarsi di una qualsiasi soluzione statuale. In effetti è difficile prevedere le forme e i tempi con cui si genera la violenza a Gerusalemme, nella West Bank e i riflessi che può avere nelle strade di altre capitali del mondo arabo.
CONSENSO INTERNO
La scelta di Trump appare anche un po' dettata da necessità interne di consenso: contribuisce a dare corpo alla figura estremista che aveva mostrato in campagna elettorale. E poi c'è l'ignoranza politica complessiva e l'inesperienza, sua e del suo team che si occupa di relazioni israelo-palestinesi: Jared Kushner, Jason Greenblatt e David Friedman.
Tenuto conto anche della debolezza nella quale Rex Tillerson ha messo il Dipartimento di Stato e l'intera diplomazia non ideologica degli Stati Uniti. Non è un caso che i predecessori repubblicani di Trump, molto schierati a favore di Israele, come Bush figlio e Reagan, non si erano mai sognati di modificare lo status di Gerusalemme.
RELAZIONI CON L'ARABIA SAUDITA
Non renderà invece più difficili le relazioni fra gli Usa e gli alleati Arabi. Per l'Arabia Saudita ma anche per l'Egitto, la mossa su Gerusalemme di Donal Trump è quasi ininfluente. È un non-problema. A meno che non provochi proteste forti da parte dei propri cittadini.
Quel che conta ora per l'uomo forte di Riad, il principe della Corona, Mohammed bin Salman, è l'asse con gli Stati Uniti in funzione anti Iran, al quale partecipa anche Israele, con un ruolo importantissimo per l'equilibrio in Medio Oriente.
Di questo asse è parte anche l'Egitto, con il suo governo ancora impegnato a tenere a bada il ritorno di attività e consenso del Fratellanza Musulmana, affiancata all'Iran come nemico assoluto di questo asse.
Come osserva Shadi Hamid su The Atlantic, ai governi arabi la questione palestinese è servita quasi sempre più per propaganda e per dare in pasto ai propri cittadini un po' di retorica pan-araba a pan-islamica.
Non sarà dunque lo status di Gerusalemme, modificato di fatto da Trump, a trasformare la politica estera attuale dell'Arabia Saudita e degli alleati.
Del resto, il piano di pace preparato da Riad e rivelato in questi giorni dal New York Times viene considerato il più favorevole per Israele, fra quelli finora presi in considerazione, con condizioni per i Palestinesi - una limitata sovranità nella West Bank e la rinuncia a ogni pretesa su Gerusalemme - che nemmeno alcuni negoziatori israeliani erano mai arrivati a proporre (anche per questo, come detto prima, si tratta di un piano che non verrà nemmeno preso in considerazione dai palestinesi).
D'altra parte, la faccenda di Gerusalemme capitale mette in difficoltà il re di Giordania, Abdullah e la stabilità del suo paese, alleato fedele degli Stati Uniti.
L'IRAN; E GLI JIHADISTI
Soprattutto offre all'Iran, il vero nemico supremo per Trump e Benjamin Netanyahu, una bella arma di propaganda in più nel suo disegno egemonico in parte del Medio Oriente. Senza contare che l'estremismo jihadista in tutto il mondo potrebbe usare anche questo pretesto per incitare ex foreign fighters e lupi solitari a colpire.