Giornata mondiale dell'Alzheimer: a che punto è la ricerca
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Giornata mondiale dell'Alzheimer: a che punto è la ricerca

Svelato il ruolo dell'inquinamento sull'insorgenza della malattia. Nuove speranze da un farmaco che agisce nelle fasi precoci della demenza

La demenza colpisce 50 milioni di persone nel mondo, con quasi 10 milioni di nuovi casi ogni anno. La sua forma più diffusa è la malattia di Alzheimer, che riguarda, secondo l'Organizzazione Mondiale della Sanità, tra il 60 e il 70% dei casi; in Italia i malati sono circa un milione. Oggi si celebra la Giornata Mondiale dell'Alzheimer, è il momento giusto per fare il punto su ciò che sappiamo della malattia.

La ricerca va avanti su due fronti: comprendere meglio le cause e trovare una cura, purtroppo ad oggi non esistono ancora terapie efficaci per la demenza. Il tempo però stringe, perché si tratta di disturbi che colpiscono in età avanzata e come sappiamo nei paesi occidentali l'età media della popolazione si sta alzando. Si stima che in coloro che hanno superato i 60 anni di età una qualche forma di demenza colpisca tra le 5 e le 8 persone ogni 100 individui.

L'impatto dell'Alzheimer e delle altre forme di demenza, rischia quindi di diventare difficile da sostenere sia dal punto di vista economico (sono pazienti che nella fase avanzata della malattia richiedono assistenza pressoché totale), ma anche per l'onere che la loro cura rappresenta per i parenti, in termini di tempo dedicato e logorio emotivo.

Geni, cellule zombie e inquinamento

Nella malattia di Alzheimer vi è sicuramente una forte componente genetica, il che naturalmente non significa che chi ha avuto parenti con Alzheimer debba per forza ereditarlo. C'è comunque una familiarità. Molto però incide anche l'epigenetica, ovvero il modo in cui l'ambiente, la dieta, lo stile di vita influenzano l'espressione genica: il DNA non cambia, ma alcuni interruttori possono essere accesi o spenti e ciò influisce sulle probabilità di ammalarsi di certe malattie.

Studi recenti hanno fatto emergere nuovi possibili colpevoli. L'ultimissimo, appena pubblicato sulla rivista Nature, avrebbe appurato che eliminando dal cervello le cellule senescenti (quelle che sono morte e hanno smesso di replicarsi e che si accumulano in tutto il corpo, cervello compreso), si riduce l'accumulo di proteina Tau legato all'insorgenza dell'Alzheimer. L'idea è che siano proprio le cellule senescenti a promuovere la neurodegenerazione tipica della malattia.

Sull'accumulo anomalo di proteine (Beta-Amiloide e Tau) che si riscontra nel cervello delle persone con Alzheimer e che sarebbe alla base del malfunzionamento dei loro neuroni in realtà la ricerca medica lavora da anni. Anche laddove si sono trovati in passato sistemi per ridurre queste placche, però, questo non si è tradotto in una remissione dei sintomi. Ecco perché il nuovo studio fa sperare, anche se non è detto che i risultati ottenuti su topi geneticamente modificati per sviluppare la demenza si applichino automaticamente anche all'uomo, ma certo vale la pena di andare avanti.

Un altro studio appena pubblicato, non a caso a ridosso della giornata Mondiale dell'Alzheimer, è apparso sul British Medical Journal e ha concluso che l'inquinamento ambientale sarebbe legato a un aumento del rischio di sviluppare la demenza. In particolare l'esposizione al biossido di azoto (NO2) e alle polveri sottili PM2.5 potrebbe avere un impatto decisivo. La ricerca si è focalizzata sulla popolazione londinese e ha scoperto che coloro che abitavano in zone della metropoli con i più alti tassi di NO2 nell'aria avevano il 40% di probabilità in più di essere in seguito affetti da demenza rispetto a chi viveva nei quartieri con i tassi più bassi in assoluto di questo inquinante.

"La causa di queste malattie neurodegenerative è ancora in gran parte sconosciuta", hanno dichiarato gli autori. "Mentre le sostanze tossiche dell'inquinamento atmosferico hanno diverse vie plausibili per raggiungere il cervello, come e quanto possano influenzare la neurodegenerazione rimane da capire".

Rallentare la progressione dei sintomi

"Nei pazienti affetti da Alzheimer", spiega la Società Italiana di Neurologia, "le cellule cerebrali nell'ippocampo - una parte del cervello associata a memoria e apprendimento - sono spesso le prime a essere danneggiate. Questo spiega perché la perdita di memoria e in particolare la difficoltà nel ricordare informazioni recentemente apprese, rappresenta spesso il primo sintomo della malattia. In generale, le cellule cerebrali subiscono un processo degenerativo che le colpisce in maniera progressiva e che porta successivamente a disturbi del linguaggio, perdita di orientamento spaziale e temporale e progressiva perdita di autonomia definita appunto 'demenza'".

Le migliori speranze per quel che riguarda un efficace impatto sui sintomi sono attualmente riposte su un farmaco che si chiama BAN2401, messo a punto da due case farmaceutiche, la giapponese Eisai e l'americana Biogen. "Per la prima volta in una grande sperimentazione clinica, un farmaco è stato in grado sia di ridurre le placche nel cervello dei pazienti sia di rallentare la progressione della demenza", così presentava la ricerca lo scorso luglio il New York Times.

Il trial ha riguardato 856 pazienti di Stati Uniti, Europa e Giappone con i primi sintomi conclamati di declino cognitivo lieve, tutti con significativi accumuli di proteina Amiloide. Nella più alta delle cinque dosi sperimentate, il farmaco ha sia ridotto le placche (risultato ottenuto in passato anche da altre molecole, come abbiamo visto, ma senza effetti apprezzabili sui sintomi della malattia), sia rallentato il declino cognitivo in confronto al placebo. In particolare dei 161 pazienti cui è stata somministrata la dose massima, l'81% ha mostrato cali significativi dei livelli di Amiloide. E in una serie di test cognitivi e funzionali ai quali sono stati sottoposti, le prestazioni di questi pazienti sono calate a un tasso del 30% più lento rispetto al gruppo che aveva ricevuto il placebo.

Nuovi investimenti in arrivo

"Dopo il fallimento delle terapie somministrate nella fase di demenza conclamata – dichiara il Prof. Carlo Ferrarese, Presidente SINDEM, Direttore Scientifico del Centro di Neuroscienze di Milano dell’Università di Milano-Bicocca e Direttore della Clinica Neurologica presso l’Ospedale San Gerardo di Monza - le sperimentazioni cliniche attuali sono rivolte alla prevenzione della malattia".

"Dati più recenti - prosegue Ferrarese - indicano che agendo nelle fasi iniziali di declino di memoria, quelle chiamate declino cognitivo lieve o Mild Cognitive Impairment (MCI), gli stessi farmaci potrebbero rallentare la progressione verso la demenza conclamata, perché si sono dimostrati efficaci nel bloccare i meccanismi biologici della malattia".

Nonostante molte aziende farmaceutiche si siano ritirate dalla corsa per trovare la cura dell'Alzheimer, negli Stati Uniti un maxi finanziamento di 2,3 miliardi di dollari al National Institute of Aging sarà impiegato per trovare nuovi approcci per la diagnosi e la cura che possano dare i primi risultati già entro il 2025. Visto che i costi di Medicare e Medicaid per i malati di Alzheimer in America ammontano già a 186 miliardi di dollari l'anno che si prevede possano diventare 750 entro il 2025, non stupisce che un finanziamento così massiccio sia stato deciso per provare a dare finalmente speranza di guarigione a questi malati.

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Marta Buonadonna