Giovani violenti: quando l’aggressività diventa normalità
Televisione, videogiochi, e social network espongono quotidianamente a episodi crudi e irruenti che impattano senza rendercene conto sulla condotta dei nostri figli
Spesso ci si interroga relativamente all’influenza dell’esposizione di bambini e adolescenti a programmi, videogiochi o prodotti, anche di ordine musicale, con contenuti di natura violenta. La domanda più comune è se la violenza, vista o narrata, abbia un impatto sul manifestarsi e il concretizzarsi di condotte di natura aggressiva.
Si consideri che, nel corso della storia, l’umanità ha sempre vissuto momenti in cui la violenza ha dominato la scena sociale e psicologica con maggior vigore rispetto ad altri. Se però si considera la realtà quotidiana, di rado le persone si imbattono direttamente in fenomeni di violenza, tendenzialmente ne vengono a conoscenza attraverso i mezzi di comunicazione. Fino a qualche decennio fa erano i telegiornali a parlare di tali tipologie di eventi, le pagine di cronaca, i quotidiani o i settimanali. Talvolta le scene di violenza erano mostrate nelle pellicole cinematografiche, ma la finzione scenica era molto smorzata.
Oggi, con la diffusione di massa dei mezzi di comunicazione, la violenza e le scene di violenza sono entrate in tutte le case e ogni componente della famiglia, salvo precisi impedimenti mirati da parte dei genitori, ha contatti con ogni forma di violenza che, rispetto agli albori della cinematografia, tende ad essere rappresentata in maniera decisamente realistica.
Da differenti ricerche è emerso come, l’osservazione di scene di violenza in televisione o l’uso di videogiochi violenti, non sia di pregiudizio per la salute pubblica. Una serie di lavori pubblicati tra il 1998 e il 2008 ha rilevato una scarsa correlazione tra violenza osservata e violenza agita in ambito pubblico, con riferimento a comportamenti criminali quali atti aggressivi aggravati e omicidi. La violenza dei media agisce sul lungo periodo mediante l’acquisizione di modelli aggressivi automatici,definiti scripts, duraturi nel tempo e che hanno l’effetto di portare a una desensibilizzazione nei confronti della violenza stessa. Questo andrebbe a indicare come, più i media espongano alla violenza, maggiore sia l’effetto di assuefazione alla stessa. Ci si abitua anche alla violenza e l’abitudine deintensifica la risposta a un determinato stimolo quando questo non è più una novità. L’abituazione è un fenomeno che interessa il genere umano sin dalla vita fetale. Il feto reagisce a stimoli improvvisi con risposte di tipo fisico quali rapidi movimenti o intensificazione del ritmo cardiaco, ma dopo la ripetizione dello stesso stimolo deintensifica la risposta fino a non avere più alcun tipo di risposta. Nel corso della crescita l’individuo affronta moltissime esperienze alle quali tende ad abituarsi e a rispondere con sollecitazioni fisiologiche meno intense e con minor partecipazione emotiva. L’uomo si abitua a tutto, anche alla violenza che lo circonda, e tende ad assumere quelle caratteristiche di una normalità a cui nessuno vorrebbe assistere, ma che sembra essere inevitabile. Tuttavia, all’uomo resta la capacità di distinguere tra un evento e l’altro e di fare delle valutazioni cognitive degli eventi.
Un importante elemento che consentirebbe il riconoscimento del dolore altrui, impedendo il passaggio all’agito anche in caso di carica aggressiva molto alta, sarebbe l’embodied cognition. Secondo questo modello, il nostro modo di pensare e le relative condotte sarebbero influenzati dall’ambiente circostante unitamente alle nostre percezioni corporee. Ogni relazione interpersonale implica la condivisione di una molteplicità di stati quali, ad esempio, l’esperienza di emozioni e sensazioni. Oggi sappiamo che le stesse strutture nervose coinvolte nell’esperienza soggettiva di sensazioni ed emozioni sono attive anche quando tali emozioni e sensazioni sono riconosciute negli altri. Una molteplicità di meccanismi di rispecchiamento sono presenti nel nostro cervello. Grazie alla creazione di una “consonanza intenzionale”, questi meccanismi ci consentono di riconoscere gli altri come nostri simili e, verosimilmente, rendono possibile la comunicazione intersoggettiva ed una comprensione implicita degli altri.
Diverso è il discorso relativo alla violenza assistita ove l’esposizione diretta ad agiti di tale natura, perpetrati nell’ambito familiare o nell’ecologia di sistema, possono trasmettere il modello aggressivo come modello di funzionamento. Il contatto reiterato con la violenza assistita favorisce infatti la formazione di modelli automatici di comportamento aggressivo, che però raramente si manifestano con atti di violenza estrema come l’omicidio. A sostegno di questa ipotesi ci sono i dati ISTAT (2022) e ONU/UNODC (2019) che affermano che nell’ultimo mezzo secolo, in ogni parte del mondo, c’è stato un graduale decremento dei delitti contro la persona (ISTAT, 2022; ONU/UNODC, 2019). Sempre dai dati di monitoraggio dei fenomeni violenti emerge che, se da una parte c’è un decremento degli atti violenti contro la persona (omicidi, rapine, sequestri di persona), dall’altra si nota un aumento di reati di bullismo,cyberbullismo e reati commessi dalle baby gang (dati Ministero dell’Interno, 2022; dati Ministero della Salute, 2023). Tali delitti sono commessi in età scolare. Questi elementi andrebbero a indicare quanto siano di pregnanza le agenzie educative, quali la famiglia e la scuola, al fine di impedire la trasmissione di modelli di natura aggressiva e violenta.