L’unica vera soluzione: i magistrati responsabili civilmente
Lo sfogo di Marina Berlusconi contro le indagini post mortem sul Cavaliere è sacrosanto: ma per tagliare le unghie ai pm d’assalto non serve la separazione delle carriere. È necessario, invece, ripristinare la responsabilità civile dei magistrati
Difficile dare torto a Marina Berlusconi, che ieri con una lettera al Giornale ha denunciato un accanimento giudiziario nei confronti di suo padre anche dopo la morte. I magistrati lo hanno indagato per trent’anni, sottoponendolo a 35 processi e ottenendo contro di lui una sola condanna. Dei 40 capi di imputazione che gli sono stati contestati, uno è rimasto in piedi ed è stato riconosciuto da una sentenza definitiva: frode fiscale. Tralascio i dubbi sulla condanna e le polemiche che ne sono seguite e mi fermo a rilevare che in tre decenni il Cavaliere ha avuto nove assoluzioni, sette prescrizioni e ha goduto di due amnistie. Oh, certo, qualcuno dirà che sul risultato ha influito il fatto che Berlusconi fosse presidente del Consiglio e qualche volta abbia tentato, magari riuscendovi, di sottrarsi a un pronunciamento sfavorevole con una legge ad personam che ne attenuasse le responsabilità. Di lui si è detto e scritto che invece di difendersi nei processi si sia difeso dai processi, ovvero abbia cercato di evitarli in ogni modo, fosse anche cambiando le leggi. Per quanto mi riguarda, si è trattato di legittima difesa contro indagini a dire poco strampalate. E poi, gran parte dei tentativi di proteggersi con nuove norme sono andati a vuoto. Basti ricordare il cosiddetto lodo Alfano, che avrebbe dovuto creare uno scudo per le alte cariche dello Stato durante il loro mandato, come esiste in altri Paesi e di cui già gode il presidente della Repubblica (ricordate i fondi neri del Sisde? Bastò un «non ci sto» di Oscar Luigi Scalfaro per tappare la bocca agli accusatori e indurre i magistrati ad archiviare). La Corte costituzionale smontò tutto, fra le gioia della sinistra che così poté continuare a beneficiare della guerra giudiziaria al Cavaliere.
Di certo, i tentativi di arginare con nuove leggi le accuse non sono serviti di fronte a quelle di mafia. Infatti, indagini infamanti lo hanno inseguito per tutta la sua vita politica. Già poco dopo la sua discesa in campo e la sua vittoria alle elezioni, la Procura di Palermo lo mise nel mirino con l’accusa di aver intrattenuto rapporti con la mafia. Pur essendo poco nota, l’inchiesta fu tenuta aperta per lungo tempo, e anche se in quel periodo si parlò esclusivamente dell’avviso di garanzia che i pm di Milano gli fecero recapitare a Napoli durante il G7, per qualche anno il fascicolo che ipotizzava il concorso esterno in associazione mafiosa è rimasto appeso sulla sua testa come una spada di Damocle. Archiviata questa indagine ne seguì un’altra, questa volta a Firenze, per strage. Il nome di Silvio Berlusconi non venne a galla, perché i pm iscrissero lui e Dell’Utri come Autore 1 e Autore 2, manco fossero stati loro, la notte del 27 maggio del 1993, a mettere la bomba che fece cinque morti e 48 feriti. L’inchiesta venne archiviata dopo un po’, ma in seguito toccò ai magistrati di Caltanissetta, competenti per le stragi di Palermo, riaprirla. Altri accertamenti, altre testimonianze e poi, anche qui, si arrivò all’archiviazione. La faccenda a questo punto avrebbe potuto dirsi conclusa ma, come in un brutto sequel cinematografico, ecco rispuntare nel 2008 un’altra indagine.
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