Per salvare il mare dobbiamo cambiare filosofia: non possiamo solo prendere...
La scienziata che porta l’Oceano nelle grandi metropoli, Mariasole Bianco: “Trattiamo il mare come fosse un conto corrente, da cui preleviamo senza versare mai un centesimo. Le are marine protette sono le nostre polizze assicurative. Dobbiamo mettere in atto una rivoluzione culturale”
Mariasole Bianco, è la giovane biologa marina e divulgatrice scientifica che il rinato Museo di Scienze Naturali di Torino ha scelto come madrina per aprire il sipario dopo dieci anni di buio totale. A lei è stato affidato l’incontro inaugurale tra arte e scienza, del programma culturale ideato dalla Fondazione Circolo dei lettori e curato da Luca Beatrice. Un popolo di montagna, quello torinese, che guarda al mare per iniziare un nuovo cammino. Perché? “Perché la nostra esistenza dipende dal mare e il futuro del mare dipende da noi”, non usa mezzi termini la scienziata, presidente e co-founder della Onlus Worldrise, che agisce per la salvaguardia dell’ambiente marino. Ha preso per mano un’intera platea portandola in un lungo viaggio alla scoperta delle meraviglie del mare, delle problematiche che affliggono la sua salute e delle soluzioni di cui disponiamo per cambiare rotta.
Da dove partiamo?
«Dalla conoscenza che si spera possa evolvere in consapevolezza. La stessa deve avere la forza di tradursi in azione. Il nostro mare, il Mar Mediterraneo è popolato da 17.000 specie. Nonostante occupi meno dell’1% della superficie del mare ha una biodiversità altissima ma è anche uno dei mari più sovrasfruttati al mondo. Nel nostro mirino un obiettivo preciso: proteggere il 30% dei mari entro il 2030».
Si tende a non vedere quanto di importante ci sia in fondo al mare.
«Abbiamo esplorato il 20% dei nostri fondali, trovandoci un mondo. Uno degli ecosistemi più significativi nel rivelarci l’importanza dei fondali marini sono le sorgenti idrotermali, ecosistemi di profondità, scoperti negli anni ’60 nel Mare Adriatico, che hanno rivoluzionato la biologia. Fino ad allora si pensava che tutta la vita sulla terra e nel mare dipendesse dall’energia primaria generata dalle piante e dalla fotosintesi: il sole era il grande motore della nostra Terra. In realtà attraverso lo studio di questi ecosistemi si è visto che lì esistono dei batteri in grado di fare la chemiosintesi, producendo energia primaria. Era l’evidenza scientifica che giustificava come è nata la vita sulla Terra. Sono lì le nostre radici, ma la loro importanza si traduce nel contesto attuale. Pensate che quegli organismi, che vivono in prossimità delle sorgenti idrotermali, e in particolare alcuni enzimi sono stati determinanti per sviluppare i test diagnostici per il Covid e la loro applicazione diagnostica è solo l’inizio. Cosa potrà mai nascondere l’80% dei fondali marini che non abbiamo ancora mappato? L’Oceano è il museo più grande che esista sul nostro pianeta, i reperti custoditi nel mare superano quelli di tutti i musei sulla terra ferma. Rischiamo di perdere questo patrimonio ancor prima di conoscerlo».
Ha dichiarato che “tutto è connesso”. In che senso?
«Le barriere coralline ci danno l’idea dell’interdipendenza tra le specie. Tutto nasce da un piccolo animale, un polipetto che forma il corallo. Occupano meno dello 0,1% delle specie marine ma supportano l’esistenza del 25%. Vuol dire che senza le barriere coralline non ci sarebbe una specie su 4 in mare. Ecco cosa voglio dire quando dico che tutto è connesso. Il corallo è un parente della medusa che invece di vagare nell’acqua si posa sul fondo ed è in grado di costruire quello scheletro calcareo che tutti conosciamo. Il corallo vive in simbiosi con una piccola alga, la Zooxanthella, che fa la fotosintesi e gli dona il 90% del nutrimento. Anche all’interno di questo piccolo organismo c’è una relazione simbiotica».
Sembra straordinario ciò che accade nel mare eppure è reale.
«Già. S’ha cosa è una patella? Probabilmente non l’avrà degnata di nessuna attenzione. Vive su uno scoglio che d’inverno è coperto dalla neve con temperature sotto lo zero e d’estate sopporta più di 40°, rimanendo spesso anche intrappolata in delle pozze d’acqua che poi evaporano. Pochissime specie riescono a sopportare questi sbalzi di temperatura e di salinità, resistendo al moto ondoso, alle mareggiate. Sa perché sono straordinarie? I minuscoli denti delle patelle sono il biomateriale più resistente mai scoperto in natura. Lo stanno studiando anche nel campo dell’ingegneria aerospaziale. Capisce perché dovremmo proteggere quell’immenso tesoro che c’è nel mare?».
Qual è stato il corto circuito più grande?
«Abbiamo considerato il mare infinito nella sua capacità di soddisfare i nostri bisogni e immune all’azione umana ma non è così. Ogni anno finiscono in mare 8 milioni di tonnellate di plastica. Immaginate un camion della spazzatura pieno di plastica che riversa il suo contenuto in mare ogni minuto, moltiplicato per tutti i minuti che abbiamo in un giorno, per tutti i giorni dell’anno. Quella plastica non si biodegrada mai, non sparisce, si frammenta in piccoli pezzi, chiamati microplastiche se hanno un diametro inferiore a 5 mm».
Ma cosa succede alla maggior parte di quella plastica?
«Dopo 5 mesi, il 95% della plastica che finisce in mare affonda, quindi quella che vediamo noi, che già fa schifo, è solo la punta dell’iceberg, la maggior parte si trova nei fondali oceanici, ambienti difficili da raggiungere, impossibili da ripulire. Possiamo solo chiudere il tappo e provare a reagire. Sia chiaro, il problema non è la plastica ma l’uso irresponsabile che ne facciamo. A tutto questo poi si aggiungono gli effetti della crisi climatica».
Parliamo di mare e di crisi climatica.
«Per anni, l'opinione generale è stata che l'Oceano fosse così vasto che era semplicemente troppo grande per fallire: too big to fail. Immune. Ma non è così. Siamo riusciti a cambiare la composizione chimico fisica del mare e questo come conseguenza soprattutto del cambiamento climatico, nonostante l’Oceano, dalla rivoluzione industriale ad oggi sia stato il nostro più grande alleato nella lotta alla crisi climatica».
In che senso?
«Ha assorbito il 93% del calore in eccesso, senza di lui la temperatura media del nostro pianeta sarebbe aumentata drasticamente. Così facendo ha cambiato la sua temperatura: fino a 2000 metri di profondità è aumentata la sua temperatura e questo incide su tante specie. Una di queste è il corallo: se gli cambi di qualche grado la temperatura, espelle la sua compagna, la sua alga, perché sotto stress e perde il 90% della possibilità di alimentarsi oltre che il suo colore, ecco perché questo fenomeno si chiama lo sbiancamento dei coralli. L’Oceano fa un altro grande servizio: assorbe l’anidride carbonica, ma quando ce n’è tanta si va incontro all’acidificazione delle acque oceaniche. L’aumento delle temperature sta causando la deossigenazione oceanica, la formazione di zone di ossigeno impoverite in mare. Ciliegina sulla torta la sovrapesca: stiamo svuotando il mare. La Fao, l’Organizzazione delle Nazioni Unite per l'alimentazione e l'agricoltura ci ha avvisato: se andiamo avanti così nel 2050 avremo il collasso della pesca commerciale. Non ci saranno più risorse sufficienti per soddisfare la domanda».
Però c’è la pesca commerciale e quella artigianale. Due cose ben diverse.
«C’è una enorme differenza tra le due cose. Ci sono navi pescherecci che hanno delle reti grandi come 4 campi da calcio, al loro interno possono ospitare 13 aeroplani. Avete idea di quanto pesce riescano a pescare in un solo giorno? Il problema della sovrapesca ci fa capire ancora una volta come tutto sia connesso: non è semplicemente un problema di perdita della biodiversità ma di giustizia sociale ed economica. Tutti questi campanelli d’allarme hanno già suonata, sapete quanto? Durante le grandi estinzioni di massa».
Ci saranno pur delle soluzioni.
«Se siamo riusciti a distruggere in questo modo il pianeta, essendo noi la causa principale del problema, allora possiamo giocare un ruolo fondamentale, magistrale, nel veicolarne la soluzione. Come umanità. Per alcune cose, poi, abbiamo ancora del margine, seppur piccolo, per agire e questa è una grande responsabilità. Infine, abbiamo una grandissima alleata: la natura. Ha un’immensa capacità rigenerativa se le lasciamo lo spazio per farlo».
E come si fa?
«Comportandoci nel mare esattamente come facciamo sulla terra ferma. Creando parchi, che nel mare si chiamano are marine protette. Al loro interno, se ben gestite, la biodiversità è tutelata ed è favorito uno sviluppo economico e sociale per le popolazioni locali. Stiamo trattando il mare come fosse un conto corrente, da cui preleviamo senza versare mai un centesimo. Le are marine protette sono le nostre polizze assicurative, il libretto di risparmio per il futuro».
Cosa dice la scienza?
«Per salvaguardare biodiversità, produttività e funzionalità dei nostri mari dobbiamo proteggere almeno il 30% dei nostri mari entro il 2030. Questo è il nostro faro. Vuol dire nell’ordine salvaguardare il patrimonio genetico, dar da mangiare a miliardi di persone, avere ossigeno da respirare nei prossimi anni».
Come siamo messi in Italia?
«Ad oggi il 10% delle nostre acque è protetto, in sei anni dobbiamo proteggere un altro 20%. Purtroppo, però di quel 10% solo lo 0,6 ha una gestione efficace. Vuol dire che dobbiamo lavorare insieme per generare quelle competenze necessarie a gestire un simile patrimonio. Dobbiamo mettere in atto una rivoluzione culturale. È sbagliata l’idea antropocentrica che spesso si ha della terra: non è fatto tutto in funzione dell’uomo, noi siamo parte di quel tutto, ecco perché occorre ristabilire un equilibrio. Ognuno di noi può fare la differenza, ogni goccia conta. Serve un approccio proattivo, occorre educare nelle scuole. La biodiversità per proteggerla devi conoscerla. Dobbiamo essere dalla parte giusta della storia. Possiamo farcela».