Harley Davidson
(Ansa)
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Harley Davidson e le altre aziende americane che dicono addio all’inclusione a tutti i costi

Lo storico marchio annuncia di volersi occupare solo di motociclette. Ma anche Nike, Amazon e altri big abbandonano la cosiddetta “DEI Policy”

Se non è un’inversione a U poco ci manca. Harley Davidson ha deciso di non proseguire con la DEI policy, l’insieme di strategie di Diversity, Equality and Inclusion avviate negli ultimi anni. Per la storica azienda motociclistica di Milwaukee è tempo di dedicarsi esclusivamente alle due ruote. Ma non si tratta dell’unico big del mondo industriale e tecnologico ad aver preso questa decisione: anche Nike, Amazon, Meta e Google hanno optato per ridurre i programmi di inclusione “a tutti i costi”, mentre Jack Daniel’s ha fatto dietrofront per evitare il boicottaggio del suo marchio.

Nel caso di Harley Davidson il cambio di politica è stato annunciato con una nota ufficiale nella quale si spiega di non prevedere più il rispetto delle quote nella selezione del personale da assumere: d’ora in poi l’unico criterio – fa sapere la casa motociclistica – sarà quello del merito e del talento, necessari a entrare a far parte dell’azienda. Niente più posti riservati, quindi, ma neppure sponsorizzazioni di iniziative in ambito DEI. Se per alcuni clienti e followers del marchio si tratta di una novità, per molti analisti è quasi una scelta obbligata. Esperti di Reputation management ritengono che pubblicizzare in modo ostentato le il sostegno alla causa della diversità e inclusione porti a una polarizzazione eccessiva su argomenti che sono già di per sé divisivi. La conseguenza, dunque, potrebbe essere negativa sia per l’immagine dell’azienda, sia in termini economici. Meglio sarebbe, invece, adottare strategie interne farle diventare protagoniste di una campagna di comunicazione vera e proprio.

Proprio come accade per la trasformazione green, avviata da aziende che vogliono presentarsi come ecosostenibili, il pericolo è che le scelte siano percepite dai clienti come una “forzatura”, uno slogan fine a ste stesso o a migliorare l’immagine del brand. Forse è per questo che anche Nike, Amazon, colossi internet come Meta e Google e, ultimo in ordine di tempo, anche Jack Daniel’s hanno cambiato direzione. Nel caso del produttore di whisky americano la motivazione è stata esplicita: troppa la pressione giunta dai social. Come spiega il New York Post, l’azienda del Kentucky ha voluto giocare d’anticipo, evitando un annunciato piano di boicottaggio che era in preparazione da parte di attivisti “anti-Woke”. Si tratta degli oppositori all’ideologia Woke, ossia quella di chi vuole “stare allerta” (dall’inglese Woke, letteralmente “sveglio”) di fronte a ingiustizie sociali, discriminazioni razziali o di genere. La parola, entrata nel gergo comune negli Stati Uniti soprattutto con la nascita del Black Lives Matter Movement nel 2017,nello stesso anno è stata sdoganata anche dall’Oxford English Dictionary. Col passare degli anni, però, all’ideologia Woke si è affiancata anche quella anti-Woke, che ora rappresenta una minaccia per le aziende che nel frattempo si erano convertite alla DEI Policy.

A guidare il movimento che si oppone al programma del “politicamente corretto” sposato da Jack Daniel’s è Robb Starbuck, che solo pochi giorni fa aveva annunciato che il colosso da 21,7 miliardi di dollari sarebbe stato il prossimo sulla lista della aziende da boicottare, dopo Harley Davidson, Tractor Supply (specializzata in manutenzione del verde urbano) e John Deer (tra le più grandi realtà nella produzione di macchine agricole, aziendali e motori). Per evitare azioni di sabotaggio economico, la Brown-Forman Corp., a cui fa capo la Jack Daniel’s, ha così smesso di indicare sul proprio sito i bonus e le paghe dei manager e del personale addetto alla DEI. Ha anche cancellato il link alla partecipazione al raduno annuale delle imprese LGBTQ-friendly, come poi comunicato in modo esplicito anche sul proprio account su X.

Il movimento anti DEI, però, non si limita al mondo produttivo, ma è cresciuto anche in quello universitario, arrivando a coinvolgere il miliardario Elon Musk. Tutto è iniziato tra la fine del 2020 e l’inizio del 2021. A fare scalpore all’epoca era stata la decisione dell’Università di Yale di cancellare il corso di “Introduzione alla Storia dell’arte, dal Rinascimento a oggi”, tenuto da un decano dell’ateneo come Vincent Scully, tra i professori più famosi dello stesso ateneo. Motivo: «Troppo problematico», secondo il Dipartimento di Storia dell’arte, che aveva optato per una serie di lezioni dedicate a «genere, classe e razza» nel mondo dell’arte. A opporsi a questa tendenza al politically correct era stato però un altro nome illustre come Pano Kanelos, ex rettore del St. John College di Annapolis, che aveva comunicato la nascita della University of Austin, nella quale non ci sarebbe stata alcuna censura ai programmi di studio. Tra i finanziatori figurava proprio il patron di Tesla e X, apertamente contro l’ideologia Woke, considerata «la più grande minaccia alla civiltà moderna», una sorta di neo-puritanesimo che «sostanzialmente vuole rendere illegale la commedia».

Anche in questo caso, comunque, a pesare sono i risvolti economici. Come sottolineato dallo stesso Musk, infatti, anche l’offerta di prodotti di intrattenimento votati alle politiche di inclusione e diversità, come quelli hollywoodiani (e di Netflix, come suggeriva il miliardario in una intervista) avrebbero subito un calo di spettatori e gradimento, ma anche di investimenti per aver «completamente abbracciato l'ideologia Woke e politicamente corretta», definita «divisiva, escludente e odiosa» e che «offre alle persone cattive uno scudo per essere meschine e crudeli, mascherate dietro una falsa virtù». Al di là delle posizioni ideologiche di Musk, le politiche DEI sembra che stiano iniziando a calare, dopo un primo momento di espansione, anche a causa di tagli nei supporti economici.

In particolare, in alcuni dei cosiddetti “Stati rossi”, ossia amministrati da Governatori repubblicani, si sta assistendo a una sforbiciata nei finanziamenti. È il caso di Florida, Texas e Utah, dove si stanno cambiando le leggi a sostegno di iniziative in questo campo. Cionostante, la rivista Forbes afferma che è necessario non tornare indietro. Il magazine economico riferisce di «iniziative coraggiose» da parte di alcune aziende, anche se c’è il serio rischio che la buona volontà di alcuni imprenditori si traduca poco in fatti concreti. È il dubbio sollevato da Philip Mandelbaum di Customer Engagement Insider. In una approfondita analisi, il giornalista e scrittore americano, esperto di Marketing Strategy, già da tempo osserva che «Anche prima della nascita del movimento Black Lives Matter, più della metà dei lavoratori credeva che la propria azienda avesse bisogno di migliorare le politiche di diversità, mentre più del 75% di coloro che cercano un impiego ritiene che le imprese applichino discriminazioni nella selezione del personale. Eppure, proprio mentre si osservava un numero record di aziende che annunciavano politiche DEI tra il 2020 e il 2021, questi stessi datori di lavoro non avevano ancora tradotto le dichiarazioni in azioni concrete». Si tratta delle stesse conclusioni del World Economic Forum, in occasione del quale è emerso che solo 1 azienda su 5 ha messo a punto un piano effettivo di inclusione, «mentre il 40% vedrebbe le pratiche DEI come un problema», ricorda Mandelbaum. Come se non bastasse, più del 75% dei responsabili aziendali di Diversity, Equality and Inclusion risulta essere bianco.

Tutto fumo e niente arrosto, dunque? Se così fosse non stupisce la scelta di un sempre maggior numero di imprese di abbandonare la forzatura sulle DEI, a favore piuttosto di azioni pratiche, rigorosamente da non sbandierare sui social.

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Eleonora Lorusso

Nata a Milano, laureata in Lettere Moderne all’università Cattolica con la specializzazione in Teoria e Tecnica dell’Informazione, è giornalista professionista dal 2001. Ha lavorato con Mediaset, Rai, emittenti radiofoniche come Radio 101 e RTL 102,5, magazine Mondadori tra i quali Panorama dal 2011. Specializzata in esteri e geopolitica, scrive per la rivista di affari internazionali Atlantis, per il quotidiano La Ragione e conduce il Festival internazionale della Geopolitica europea dal 2019. Dal 2022 vive negli USA.

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