Hong Kong, la protesta rischia il bagno di sangue
Dopo quasi tre mesi di manifestazioni per la democrazia, Pechino invia 10mila soldati. L’Occidente tace
Dopo quasi tre mesi di protesta, a Hong Kong una svolta è alle porte, e si rischia il bagno di sangue. Nella notte fra il 29 e il 30 agosto nell’ex colonia britannica sono sbarcati tra 8 e 10mila militari cinesi: sono andati ad aggiungersi ai 5mila soldati dell’esercito popolare di stanza nell’isola, mentre dal 22 agosto più di 12mila agenti di polizia sono stati trasferiti nella vicina provincia cinese del Guangdong, per un’esercitazione che ha incluso misure anti-sommossa.
Nella stessa notte è stato arrestato Joshua Wong, leader della “Rivoluzione degli ombrelli” del 2014, solo perché si era schierato con le nuove proteste. Con lui sono stati fermati alcuni presunti dirigenti delle ultime manifestazioni, mentre la polizia ha vietato la marcia prevista per domani, 31 agosto. Del resto, già il 25 agosto Xinhua, l’agenzia di Stato cinese, dichiarava che “il governo centrale non resterà con le mani in mano e non permetterà a questa situazione di continuare”.
Che cosa farà Pechino?
In queste ore gli osservatori internazionali si chiedono cos’abbia veramente intenzione di fare la Cina: finora Pechino ha usato solo censura e minacce, ma in teoria ha anche il diritto di usare la forza all’interno del territorio autonomo di Hong Kong: La Legge Fondamentale, una Costituzione varata nel 1997, prevede che l’esercito cinese possa intervenire su richiesta del governo locale per “il mantenimento dell’ordine pubblico e in caso di catastrofe”. Nessun governo occidentale, a parte quello Canadese, ha comunque manifestato solidarietà alla protesta. Anche al G7 di Biarritz il tema è stato ignorato.
Come è cominciata la crisi e perché
La crisi è cominciata domenica 9 giugno, quando a Hong Kong si è svolta una prima grande manifestazione popolare, con quasi 2 milioni di persone per strada. Per 12 fine-settimana consecutivi la città ha visto sfilate, marce e agitazioni, ostacolate dalla sempre più dura repressione della polizia. Negli anni precedenti era già accaduto che a Hong Kong si svolgessero grandi manifestazioni anti-regime, ma questa protesta dura ormai da 89 giorni e pare molto più determinata, organizzata, bellicosa. Ma come e perché si è arrivati a questa situazione? Hong Kong sorge sull’omonima isola e sulla prospiciente penisola di Kowloon, 2mila chilometri a sud di Pechino, un territorio di circa mille chilometri quadrati e 7 milioni di abitanti. Per 155 anni, dal 1842 al 1997, Hong Kong è stata una colonia britannica, ma da 22 anni Londra è stata costretta a cederla a Pechino e da allora Hong Kong è divenuta “regione amministrativa speciale cinese”, cioè fa parte della Repubblica popolare. Gode però di un certo grado di autonomia.
Che cosa prevedeva il trattato del 1984
Nel trattato, firmato il 19 dicembre 1984 da Margaret Thatcher e Deng Xiaoping e poi entrato in vigore il 1° luglio 1997, Pechino s’impegnava a lasciare invariato il sistema politico, economico e amministrativo della città per mezzo secolo, fino al 2047. In realtà Hong Kong ha progressivamente perso molte delle caratteristiche di una piena democrazia. Alle elezioni, in teoria, possono ancora presentarsi più partiti, ma dal luglio 2017 il “Capo del governo” di Hong Kong (che da quell’anno è Carrie Lam, 62 anni, una politica locale per l’appunto sostenuta dal Partito comunista cinese) viene nominato da un “Comitato elettorale” formato da 1.200 persone, scelte in base a complesse regole che assegnano un certo numero di rappresentanti agli ordini professionali e ai settori economici della società. Il problema è che ormai il “Comitato elettorale” è di fatto controllato dal governo cinese. Il sistema giudiziario di Hong Kong, al momento, resta indipendente e si basa sul common law, il diritto consuetudinario anglosassone. La “Legge fondamentale”, una specie di Costituzione che risale al 1997, stabilisce che la città abbia autonomia in tutti i campi, tranne che in politica estera e nella difesa.
L’antefatto del 2014: la “Rivoluzione degli ombrelli”
La popolazione di Hong Kong da tempo manifesta insofferenza per la crescente invadenza di Pechino. Il 1° luglio 2014, alle celebrazioni per il 17° anniversario della restituzione di Hong Kong alla Cina, una grande manifestazione di popolo dette inizio alla “Rivoluzione degli ombrelli”: i parapioggia erano usati dai manifestanti per difendersi dagli spray al peperoncino e dai gas lacrimogeni della polizia.
In quel caso, la protesta nacque contro l’annuncio della riforma del sistema elettorale, imposta da Pechino ed entrata in vigore tre anni dopo. Nel 2014 si svolsero grandi sit-in pacifici, organizzati da un’associazione studentesca guidata dal 17enne Joshua Wong, che divenne il volto della protesta, e da “Occupy Central”, un movimento per la disobbedienza civile che nel giugno di quel 2014 aveva organizzato un referendum per chiedere il ritorno a elezioni veramente libere. I manifestanti, a milioni, occuparono la zona dell’Ammiragliato, il porto a nord dell’isola: chiedevano autonomia, libertà democratiche e le dimissioni del governatore Leung Chun-ying, definito «servo di Pechino».
Dopo 79 giorni, l’11 dicembre 2014, l’Ammiragliato divenuto centro simbolico della protesta fu sgomberato dalla polizia, e l’insurrezione terminò. In tutto vennero arrestate 955 persone. Nel 2015 Wong e altri capi della protesta vennero condannati a pene comunque “miti”: tra i 6 e gli 8 mesi di carcere.
La repressione strisciante dal 2015 al 2018
Malgrado la protesta del 2014, la riforma elettorale voluta da Pechino è entrata in vigore. E questo anche se nel 2015 è stata respinta dal “Consiglio legislativo”, il Parlamento di Hong Kong, con 28 voti contrari su 70 e solo 8 favorevoli (tutti gli altri si astennero). Nei due anni successivi il regime cinese ha comunque aggirato quel voto contrario e imposto le sue regole. Nel febbraio 2016, sempre per protestare contro la riforma elettorale imposta da Pechino, si sono verificati nuovi scontri tra polizia e manifestanti, che il Wall Street Journal ha letto come «passaggio dal pacifismo della Rivoluzione degli ombrelli a una protesta violenta».
Nel novembre 2016 la Repubblica popolare ha perfino annullato l’elezione di due parlamentari indipendentisti al Parlamento di Hong Kong, e solo perché si sono rifiutati di giurare fedeltà alla Cina con la formula di rito.
Anche l’editoria è minacciata. Nel 2015, da ottobre a dicembre, cinque piccoli editori e librai vicini a Mighty Current, una casa di Hong Kong che pubblicava testi critici verso la Repubblica popolare, sono scomparsi: si è scoperto poi che erano stati sequestrati dalla polizia a scopo intimidatorio, per impedire l’uscita di un libro critico nei confronti del presidente cinese Xi Jinping. L’obiettivo è stato raggiunto: il libro non è più uscito e nell’ottobre 2018 l’ultima libreria di Hong Kong che pubblicava testi censurati in Cina ha chiuso.
Il perché di questi ultimi 12 week-end di proteste
Le proteste avviate il 9 giugno 2019, inizialmente, intendevano contrastare un emendamento alle norme di Hong Kong sull’estradizione, in quel momento in discussione nel Parlamento locale. Se approvato, l’emendamento avrebbe consentito di processare in Cina un indagato di crimini gravi, come omicidio e stupro.
La legge era stata proposta nel febbraio 2018 perché un 19enne di Hong Kong era stato accusato di aver ucciso la fidanzata durante una vacanza a Taiwan. Il governo di Taiwan aveva chiesto l’estradizione del giovane, ma le leggi di Hong Kong non lo avevano permesso.
Secondo i movimenti e i gruppi che difendono i diritti umani, in realtà, la modifica normativa ha soltanto l’obiettivo di garantire alle autorità cinesi un inedito diritto d’ingerenza nel sistema giudiziario di Hong Kong. L’emendamento consentirebbe alla Cina di deportare gli oppositori del regime perché nulla impedirebbe a Pechino d’inventare accuse contro un personaggio politicamente “scomodo” al solo scopo di estradarlo.
Tutto quello che è accaduto negli ultimi tre mesi
Le manifestazioni contro l’emendamento sono partite il 9 giugno 2019. Gli scontri con la polizia sono iniziati il 15-16 giugno. Dal secondo week-end, gli agenti hanno usato spray urticanti e cannoni ad acqua contro i manifestanti. Quel fine settimana, due giorni nei quali hanno sfilato 2 milioni di persone, sono stati feriti 72 contestatori, e 11 sono stati arrestati.
Il 15 giugno Carrie Lam ha annunciato la sospensione dell’emendamento, ma non per questo le proteste si sono fermate: gli organizzatori hanno dichiarato infatti che la sospensione era solo un escamotage per sedare le agitazioni e per poi riproporre l’emendamento da settembre, con la riapertura dell’anno legislativo e scolastico: tra i manifestanti, infatti, gli studenti sono in maggioranza, e data la severità del sistema scolastico e universitario di Hong Kong, si teme che dal prossimo mese la portata delle proteste si ridurrà sensibilmente.
È per tutto questo che le proteste non si sono fermate e anzi si sono trasformate in aperta ribellione contro la Cina, con la richiesta di un ritorno alla piena libertà di voto e alla precedente autonomia.
Nelle ultime settimane, le manifestazioni si sono evolute, trasformandosi in un chiaro attacco al potere del PC cinese. Lanciando slogan come «Hong Kong libera» e «Hong Kong non è la Cina», i contestatori hanno manifestato il loro rifiuto per un futuro nel quale l’ex colonia sarebbe inesorabilmente assorbita dal regime. I manifestanti definiscono provocatoriamente le loro proteste «un’era di rivoluzione», una formula che ha fatto infuriare Pechino, determinata a soffocare ogni tentativo di sfida al suo potere.
Scontri sempre più violenti
Nelle ultime settimane, le manifestazioni si sono evolute anche quanto alla partecipazione: ormai partecipano persone di tutte le età, le professioni – compresi i dipendenti pubblici, solitamente neutrali – e i ceti sociali. Anche per questo gli scontri con le forze dell’ordine si sono fatti più violenti.
I manifestanti non si sono limitati a scendere in strada con gli ombrelli (in ricordo delle proteste del 2014), ma si sono muniti di occhiali per proteggersi dagli spray urticanti, di elmetti di plastica contro proiettili di gomma e sfollagente, di maschere e bandane per nascondere il viso alle telecamere di sorveglianza.
Il 1° luglio, 22° anniversario della consegna di Hong Kong alla Cina, i manifestanti sono riusciti a entrare perfino nell’edificio del “Consiglio legislativo”, il Parlamento di Hong Kong. Alcune centinaia di giovani mascherati hanno raggiunto l’aula dove si riunisce il Consiglio, hanno scritto slogan sui muri ed esposto la bandiera di quando Hong Kong era una colonia britannica.
Il 10-11 agosto (decimo weekend di protesta) sono scese in strada 1,7 milioni di persone, e quel fine settimana le manifestazioni si sono allungate a lunedì 12 e a martedì 13: in quei due giorni, per alcune ore, gli attivisti hanno bloccato il traffico stradale, aereo, ferroviario e metropolitano di Hong Kong. È stato il primo sciopero generale dal 1997.
Nell’ultimo fine settimana del 24-25 agosto un agente ha sparato un colpo di pistola in aria e alcuni suoi colleghi hanno puntato l’arma sui manifestanti (le loro foto hanno fatto il giro del mondo), giustificandosi con il fatto che erano stati circondati e bersagliati con mattoni. Quel giorno sono stati eseguiti 24 arresti.
Dal 9 giugno al 25 agosto a Hong Kong sono state arrestate in totale 449 persone, circa 60 sono accusate di crimini che prevedono fino a 10 anni di carcere.
Una novità rispetto al passato: nessun leader
Contrariamente a quanto era accaduto nelle proteste precedenti, le grandi manifestazioni del 2019 non si sono sviluppate attorno a uno o più leader, ma sono state organizzate da piccoli gruppi, coordinati online tra loro via Telegram e Facebook, e su un social network di Hong Kong che si chiama LIHKG. Per questo la polizia non riesce a prevenirle: una strada viene occupata all’improvviso da centinaia di persone, e da lì parte una manifestazione. «Non c’è una struttura piramidale di comando», ha spiegato uno dei manifestanti al Wall Street Journal: «Ci sono solo collegamenti come in un social network».
La scelta di non avere leader è un risultato di quanto accade nel 2014, quando molti capi furono arrestati e condannati al carcere. A differenza di quelle manifestazioni, quando leader come Joshua Wong divennero noti a livello globale, gli attivisti del 2019 restano volontariamente lontani dai riflettori, usano pseudonimi e quando si presentano alle interviste lo fanno con i volti coperti da maschere sovrastate da occhiali da sole. Gli stessi manifestanti spesso indossano maschere e si vestono di nero, e anche questo è un ostacolo inedito per la polizia.