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I destini paralleli di Aleppo e Mosul

Situazioni distinte sul campo ma identiche per la popolazione civile. Mentre ad Aleppo i ribelli capitolano, a Mosul il Califfato resiste

Per Lookout news

Mentre in Siria le forze governative appoggiate dalla Russia e dall’Iran sono ormai vicine alla conclusione vittoriosa dell’assedio di Aleppo, la situazione nella città irachena di Mosul, occupata dalla metà del 2014 dalle milizie del Califfato Islamico, appare ancora molto complicata, sia sul piano militare sia sotto il profilo umanitario.

 Iniziata lo scorso 17 ottobre, l’offensiva delle forze speciali irachene appoggiate dai jet americani e dai Peshmerga curdi, dopo i primi successi iniziali che le hanno portate quasi dentro la città-simbolo dell’Isis, ha subìto nelle ultime due settimane un vistoso rallentamento, dovuto alla strenua resistenza dei combattenti jihadisti (in massima parte ex appartenenti alle truppe d’elite dell’esercito di Saddam Hussein), che cedono terreno solo dopo durissimi combattimenti strada per strada e casa per casa.

Finora le truppe governative irachene hanno perso circa 2.000 soldati, in gran parte uccisi da cecchini o da attentati suicidi. Le tattiche adottate sul terreno dall’ISIS sono infatti micidiali. Prima colpiscono le linee avversarie con automobili imbottite di esplosivo e guidate da autisti suicidi, poi seminano le abitazioni di tiratori scelti isolati e infine, se circondati o messi nell’angolo, i miliziani – che indossano quasi tutti giubbotti esplosivi – si fanno esplodere in mezzo ai soldati iracheni.

Lo stato maggiore di Baghdad calcola che al momento a Mosul operino non meno di 10mila soldati del Califfato, i quali andranno praticamente eliminati uno per uno prima di completare la riconquista della città. Un’operazione che. anche nelle stime più ottimistiche. difficilmente potrà essere completata prima del nuovo anno. Man mano che, sotto la pressione dei bombardamenti e delle forze corazzate, i miliziani sono costretti a ritirarsi, infatti, essi costringono gli abitanti dei quartieri che stanno per essere riconquistati dai governativi ad abbandonare le loro case e a seguirli nelle aree ancora sotto il loro controllo, per continuare a usarli come scudi umani.

 Il primo ministro iracheno Haider Al Abadi, leader della maggioranza sciita, l’8 dicembre scorso ha dichiarato di essere particolarmente soddisfatto per i successi delle sue truppe: “abbiamo assistito al collasso dell’organizzazione militare del nemico” ha detto il premier aggiungendo, con un ottimismo che non trova fondamento nella realtà sul terreno, che “la liberazione di grandi porzioni di territorio dimostra che l’ISIS non ha il fegato per combattere”.

Affermazioni smentite dagli osservatori militari. Infatti, secondo il portavoce delle forze speciali irachene, Sabah Al Numai, solo per occupare la parte di città a oriente del fiume Tigri saranno necessarie settimane e l’obiettivo difficilmente sarà conseguito prima della fine del prossimo gennaio. La dichiarazione, raccolta dall’agenzia Reuters, smentisce anche le affermazioni del primo ministro di fine ottobre, secondo cui la riconquista di Mosul sarebbe stata completata entro la fine di quest’anno.

 Il Califfato, che già è stato costretto ad abbandonare le città di Tikrit, Ramadi e Fallujah, sa che perdere Mosul sarebbe la fine del sogno di liberare i sunniti iracheni dal giogo sciita, costringendolo a ripiegare su una strategia di guerriglia nelle campagne che ancora controlla e di attentati nelle grandi città del Paese. Per questo stanno trasformando l’offensiva governativa su Mosul in una sanguinosa guerra di posizione, senza alcuna preoccupazione per le sorti della popolazione civile, intrappolata nella città ormai circondata.


L’emergenza umanitaria
La situazione degli abitanti di Mosul è drammatica e ricorda quella dei siriani di Aleppo. Su un milione e mezzo di abitanti del 2014, solo 90mila fino a oggi sono riusciti ad abbandonare i quartieri sotto attacco, sfuggendo alle minacce dei jihadisti che uccidono sistematicamente chi tenta di raggiungere le linee governative. Quattro dei cinque ponti sul Tigri che collegano il settore occidentale della città con quello orientale sotto attacco dei governativi, sono stati distrutti dai raid dell’aviazione americana, che dall’inizio dell’offensiva ha compiuto oltre 500 missioni di bombardamento. Secondo le stime delle Nazioni Unite, attualmente almeno mezzo milione di abitanti vive in condizioni drammatiche, senza elettricità e acqua corrente. L’Alto Commissariato Onu per i rifugiati, UNHCR, stima che sarà necessario predisporre strutture di accoglienza per almeno un milione di profughi.

 Un residente nell’area ancora occupata dal Califfato è stato raggiunto al telefono agli inizi di dicembre da un giornalista del sito web americano Daily Beast. Rischiando la vita, perché i jihadisti hanno proibito pena la morte l’uso dei cellulari, l’uomo ha raccontato che i miliziani sunniti “sono sempre più paranoici” nei confronti dei civili e negli intervalli dei combattimenti perquisiscono le abitazioni alla ricerca di armi e di telefoni e uccidono interi nuclei familiari se trovano “qualcosa di sospetto”.Gli iman sunniti di Mosul hanno inoltre dichiarato nei loro sermoni che tutti gli abitanti delle aree occupate dai governativi “sono diventati infedeli e quindi è permesso ucciderli”, autorizzando di fatto i ribelli a bombardare indiscriminatamente i quartieri dei quali hanno perso il controllo.

 Mentre l’offensiva prosegue con esasperante lentezza, tutti i foreign fighters presenti in quella che è ancora la capitale del Califfato in Iraq hanno attraversato il Tigri e si sono concentrati sulla sponda occidentale per l’ultima resistenza. Una battaglia, quella di Mosul, che come quella di Aleppo ha un esito segnato, se non a breve almeno a medio termine, ma i cui costi finali saranno in gran parte pagati dai civili stretti tra le bombe dei “liberatori” e quelle dei “difensori della pura fede”.

Battaglia di Aleppo

GEORGE OURFALIAN/AFP/Getty Images
6 ottobre 2016. Soldati filogovernatvi in postazione nel quartiere di Bustan al-Basha ad Aleppo, Siria.

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Alfredo Mantici