I tormenti di Benedetto XVI, lo sconfitto
Forse la storia avrà il coraggio di ammettere che la Chiesa deturpata ha sconfitto il Papa. Le dimissioni di Benedetto XVI
Il giudizio della Storia su Benedetto XVI avrà la stessa generosità di quella dei commentatori di giornata? O “il gran rifiuto” di Papa Ratzinger sarà letto con la severità che indusse Dante a collocare l’artefice di un altro “gran rifiuto” nel 1294, Celestino V, nel girone infernale degli ignavi? “Poscia ch’io v’ebbi alcun riconosciuto, vidi e conobbi l’ombra di colui che fece per viltade il gran rifiuto”.
Lo stesso Benedetto XVI ha formulato la rinuncia richiamando la propria inadeguatezza a condurre il Papato e assegnando al successore il compito di raddrizzare il timone della Chiesa. Schiacciato dalla potenza carismatica del predecessore Papa Karol Wojtyla, il puro e raffinato teologo Joseph Ratzinger si è dovuto arrendere (sì, arrendere) a lotte intestine tra i centri di potere che sempre hanno lacerato la Chiesa e il Vaticano. Ma perché sorprendersi? Lo dico da profano. Senza conoscere le segrete cose. Con l’animo di quei popolani citati da Ignazio Silone che ricostruì la vicenda morale e storica di Celestino V nel bellissimo “L’avventura d’un povero cristiano” (1968). Prima di abdicare, l’ex monaco eremita scelto a Perugia da un Conclave di solo 11 cardinali (il dodicesimo era morto nel frattempo di peste), in un clima di precarietà e divisioni interne alla Chiesa e sotto la pressione delle guerre, viene incalzato dal popolino a non darsi per vinto. “Santo Padre, rimanete con noi. Non abbandonateci, non abbandonate il gregge ai lupi”.
Un secondo popolano: “Mandate via i cardinali e rimanete col popolo e col re”. Terzo popolano: “I cardinali sono la rovina della Chiesa come i baroni sono la rovina del Regno. Non ci lasciate”. Poi i popolani in coro: “Santo Padre, liberate la Chiesa dalla Curia di Roma”. Un quinto popolano si propone di liberare a modo suo il Pontefice “dai cardinali farabutti”. Ma lui, Celestino V, ripudia la violenza e intona il Padre Nostro (nasce eremi
ta come Benedetto XVI nasce teologo). E si sfoga con i chierici: “Che ne può sapere il popolo del terribile esame di coscienza che ho dovuto affrontare nei giorni scorsi. Bisogna amare il popolo, ma nessuno schiamazzo di folla deve mai prevalere sulla voce della coscienza”. Anche loro chiedono al Santo Padre di non abbandonarli. Ma lui sogna una grotta della Maiella. “La pace, non desidero altro”. La preghiera. Nel decisivo dialogo con il cardinale Benedetto Caetani, che diverrà Papa con il nome di Bonifacio VIII, Celestino V pronuncia la frase che dà senso al gran rifiuto: “Ho imparato a mie spese che è difficile essere papa e rimanere buon cristiano”.
In fondo, il gesto di Benedetto XVI è la confessione di un fallimento. Il potere lo ha logorato, perché il Papa teologo non ha saputo esercitarlo fino in fondo come dovrà fare il successore col vigore del corpo e dell’anima. Perché sul trono di San Pietro il potere spirituale deve sposarsi con quello temporale, la conoscenza del Cielo con quella degli uomini. Da un lato la vicenda dei preti pedofili, dall’altro gli scandali rivelati da Vatileaks, e la pubblicità dello scontro fra cardinali di Curia e le vicissitudini dello Ior e delle organizzazioni ecclesiali, si sono rivelati più forti di Papa Ratzinger, insidiato fin dentro le sue stanze da rivalità e tradimenti. E invece di far cadere il maglio dell’infallibile potere, ha preferito abdicare
e denunciare le lacerazioni che “deturpano” il volto della Chiesa. Prigioniero anche lui, purtroppo, di quella zizzania.
Il rapporto tra cristianesimo e potere ritorna nel bellissimo dialogo che Silone sceneggia tra Celestino V che ha ripreso il vecchio nome di Pier Celestino e il nuovo Papa Bonifacio VIII che restaura il potere secolare della Chiesa, anche sporcandosi le mani. Dice il vecchio Papa al nuovo: “La radice di tutti i mali, per la Chiesa, è nella tentazione del potere… Il nostro regno non è di questo mondo”. E Bonifacio VIII lo imprigiona.
Sarà la Storia a giudicare Joseph Ratzinger, come già Pier Celestino. Ma da profano mi dico: quanta forza nella schietta agonia di Giovanni Paolo II, il Papa che non scende dalla Croce, forte, carismatico, eppure politico, vicino al popolo. E quanto tormento, quanta fragilità, quanti dubbi, quanta debolezza negli ultimi giorni di un Pontificato contraddistinto da una lotta perdente (anche perché così pubblica) con gli oscuri poteri della Curia.
Celestino V finì braccato, catturato mentre cercava di fuggire in Grecia e rinchiuso nella Rocca di Fumone vicino a Ferentino, nel Lazio. Si avverò così il monito profetico che Jacopone da Todi, il grande lirico francescano, gli aveva indirizzato dopo l’elezione: “Che farai Pier da Morrone?/ Sei venuto al paragone… Guardate dai barattere/ che il ner per bianco fan vedere/ se non te sai ben schirmire,/ canterai mala canzone”. O piuttosto ha ragione Francesco Petrarca, che negò al gesto del “solitario e Santo Padre” Celestino V l’interpretazione dantesca della “viltà d’animo” e scrisse nel suo “De vita solitaria” che “io, per me, lo ritengo più di ogni altro utile a lui stesso e al mondo”?
Ai posteri l’ardua sentenza.