La guerra e il bivio dell'Ue. Tremenda inflazione o recessione
Tocca alla banca centrale intervenire contro l'aumento delle materie prime e la mancanza di forniture. L'opzione B però è uno scambio tra riduzione dell’inflazione con rialzo dei tassi - mantenendo un backstop sugli spread - e l’ingresso in recessione dei Paesi europei.
Inizia ad affiorare l’idea dell’economia di guerra anche in Italia, cosa che significa prepararsi al peggio. Le aspettative sull’inflazione erano già fortemente aumentate a causa dell'eccessivo stimolo fiscale varato all'inizio dello scorso da tutti i governi occidentali e dal piano di acquisti della Fed e della Bce. La storia mostra che le guerre (molto più delle pandemie) sono la causa più comune dei grandi rialzi di inflazione.
Il caso recente più noto è il modo in cui le guerre del 1973 (Yom Kippur) e del 1979 (Iran-Iraq) hanno contribuito alla grande inflazione degli anni Settanta, ma ci sono molti altri esempi. È vero, il prezzo del petrolio è una componente molto più piccola dell'attività economica e degli indici di inflazione al consumo oggi rispetto a cinquanta anni fa. Ma sarebbe ingenuo immaginare che, con l'inflazione già al suo massimo dal 1982, l'ulteriore shock della guerra e delle sanzioni sempre più dure non verseranno benzina sul fuoco.
Non è inoltre possibile ignorare i rischi che si annidano all'interno del sistema finanziario internazionale. Molte istituzioni bancarie europee hanno ignorato l'avvicinarsi della guerra e hanno tenuto in pancia grandi quantità di beni, azioni e attività russe che sono crollati di valore. Perdite di questa portata – e con altre in arrivo se lo stato russo andrà in default su parte del suo debito – hanno quasi sempre ripercussioni. A ciò si aggiunge l’inflazione delle materie prime agricole. Ciò significa non soltanto un aumento del costo della vita in Europa, ma la possibilità di crisi e carestie in quell’Africa settentrionale che si nutre di agricoltura russa e ucraina. Uno stato di cose che può spronare ad una massiccia immigrazione verso l’Europa di milioni di persone, con le conseguenti difficoltà di gestione per le classi politiche europee. L’Italia ha problemi amplificati: una maggiore dipendenza da fonti energetiche esterne (gas russo e niente petrolio); è la frontiera fisica dell’immigrazione africana; è il grande Paese europeo con l’economia più debole; ha un sistema politico in perenne fibrillazione. Non soltanto, ma è anche la nazione che andrà al voto all’inizio del 2023 e che viene da una forma molto penetrante di auto-commissariamento dei partiti, prima con la creazione del governo Draghi e poi con la rielezione di Sergio Mattarella. È bene iniziare a ragionare sull’impatto di questa crisi inflazionistica sull’Italia, paese dalla politica e dallo Stato debole, in modo sistemico. La guerra può forse unire maggiormente nel breve l’establishment politico grazie alla sindrome del nemico esterno, ma una crisi economica e sociale può sfilacciare la fiducia tra istituzioni e paese reale. Servono azioni immediate del governo sul fronte energetico per salvare famiglie e aziende, urge coltivare la consapevolezza che il Pnrr possa aver impatti ridotti rispetto alle iniziali aspettative e che la transizione ecologica subirà un arresto, o quantomeno un ridimensionamento sul fronte dell’abbandono dei combustibili fossili. In questo quadro critico, il governo dovrebbe evitare azioni suicide sul piano politico come la riforma del catasto. Non è il momento giusto per chiedere più tasse ai cittadini né di rompere i rapporti tra i partiti della maggioranza, considerato quello che potrebbe aspettarci in pochi mesi. Gli scenari sul tavolo sono due. Il primo è quello in cui l’inflazione viene lasciata correre o sfugge di mano per intervento tardivo. Scenario molto rischioso perché l’inflazione colpisce maggiormente i ceti medio-bassi ed erode la fiducia nella moneta. L’euro ha già fronteggiato una crisi di fiducia, con l’emersione di movimenti e partiti euroscettici, dopo la crisi dei debiti sovrani. L’inflazione è potenzialmente peggiore poiché la moneta unica è stata tutta costruita su un assetto non inflazionistico e sulla promessa della stabilità dei prezzi, di conseguenza una diminuzione del potere d’acquisto vorrebbe dire indebolimento politico della valuta. La questione dell’euro come costruzione politica ed economica tornerebbe a porsi nei prossimi anni. Il secondo scenario è, invece, uno scambio tra riduzione dell’inflazione con rialzo dei tassi - mantenendo un backstop sugli spread - e l’ingresso in recessione dei Paesi europei. La durata e l’entità di questa recessione, in ogni caso non priva di effetti sociali e politici, dipenderà dall’andamento della guerra e dalle decisioni economiche dei governi. E qui si torna all’Unione Europea. Deve essere chiaro che il Next Generation Eu oramai rischia di essere un palliativo. Urge una politica monetaria meno espansiva e una politica economica comune più rilevante. Forme di debito comune diventeranno inevitabili, anche se solo settoriali (energia, difesa, infrastrutture), pena una lunga depressione dai confini politici incerti. Agire in tempi stretti è fondamentale per le burocratiche strutture di Bruxelles. Muoversi in ritardo, come successe nella crisi del 2011-2012, può costare molto caro.