Il coraggio di Marisa Manzini
Con l'uscita del suo primo romanzo la scrittrice e magistrato esplora le storie di due donne che si oppongono alla logica criminale e al sistema valoriale della 'ndrangheta
L’uscita del primo romanzo di Marisa Manzini, sostituto procuratore generale di Catanzaro, è l’occasione per addentraci all’interno di uno degli ambiti più misteriosi e da sempre imperscrutabili della ‘ndrangheta calabrese, l’universo femminile, da sempre tabù e terreno minato per la stessa organizzazione criminale. La Manzini lo fa con «Il coraggio di Rosa. Storia di una donna che ha ripudiato la ‘ndrangheta» (Rubbettino, 2024), il cui approccio «verista» squarcia il velo sull’idea stessa di famiglia di ‘ndrangheta analizzando la quale è possibile scandagliare l’aspetto sicuramente più ermetico della cultura mafiosa calabrese.
Marisa Manzini, novarese di nascita, trentuno anni fa ha abbandonato la sua terra: sotto scorta dal 1999 a causa delle indagini nei confronti dei clan di ‘ndrangheta prima di Lamezia Terme e poi del Vibonese, è più che mai convinta di come «con il dialogo si possa (e debba…) incidere anche sul tessuto della criminalità organizzata calabrese. Si tratta di un processo lungo e difficile, ma serbo ancora la speranza che le donne (e gli uomini…) di Calabria possano continuare a credere che la potenza della parola possa mutare il volto oscuro e nascosto di questa meravigliosa terra».
Dottoressa Manzini, la sua figura di magistrato è ormai inscindibile da quella di scrittrice in Calabria…
«Scoprii la Calabria, il suo paesaggio e la sua gente nel 1993, quando arrivai alla Procura di Lamezia Terme per prendervi servizio quale Sostituto Procuratore della Repubblica. Il Mezzogiorno d’Italia, fino ad allora, era per me sconosciuto: avevo frequentato l’Università a Milano, svolto l’uditorato giudiziario a Torino, io che sono novarese di nascita e lombarda di ascendenze familiari. Oggi continuo la mia battaglia contro la criminalità organizzata calabrese anche usando il libro come potente strumento culturale».
Siamo alla terza pubblicazione.
«Con “Fai silenzio ca parrasti assai” (Rubbettino 2018), partendo da un drammatico episodio che mi aveva riguardato personalmente, ovvero le urla che il capo della cosca dei Mancuso di Limbadi, Pantaleone, mi aveva rivolto nel corso di un’udienza, avevo posto l’obiettivo su aspetti tipicamente tecnici all’interno della provincia di Vibo Valentia, ovvero nascita, sviluppo ed espansione della ‘ndrangheta. In pratica avevo offerto ai lettori di conoscere il punto di vista di chi aveva avuto la possibilità di avvicinarsi a persone e luoghi che, senza forse averne la consapevolezza, hanno contribuito ad avviare un nuovo corso di questa regione».
Poi, lentamente si era avvicinata all’universo femminile…
«Con il successivo “Donne custodi. Donne combattenti. La signoria della ‘ndrangheta su territori e persone” (Rubbettino 2022), mi ero soffermata ad esaminare se l’emancipazione della donna all’interno delle famiglie di ‘ndrangheta andasse di pari passo con l’emancipazione all’interno della società, ovvero se nel riparto delle funzioni interne alla famiglia/’ndrina, la strategia criminale ‘ndranghetista avesse attribuito alla figura femminile dei compiti preziosi e insostituibili di valori del passato, di consegnataria alle nuove generazioni, di vestale della vendetta, così da rendere la figura della donna unica e preziosa per la stessa sopravvivenza di questa consorteria mafiosa».
In pratica aveva già scandagliato l’universo femminile intraneo alla mafia calabrese…
«Impossibile non farlo! E mi viene difficile non citare il grande poeta e scrittore Corrado Alvaro, per il quale “la donna è il personaggio più importante e più autentico per la Calabria. E’ anche il lusso d’una natura scabra, immiserita dagli uomini”. Partendo da questo assunto, nel corso degli anni ho individuato sia donne che non avevano avuto il coraggio di allontanarsi dalla famiglia criminale, addirittura oggetto di violenza, che donne che, invece, avevano trovato il coraggio di mettersi contro le organizzazioni, di ribellarsi e di divenire il chiavistello necessario per infrangere un potere fondato sulla violenza e la sopraffazione».
Dal saggio al romanzo: ecco “Il coraggio di Rosa”…
«Sono convinta che uno dei più forti deterrenti contro la criminalità organizzata calabrese possa essere lo strumento letterario. Un romanzo che mi piace definire “verista” per il fatto stesso che entra in una famiglia di ‘ndrangheta, esaltandone gli aspetti più intimi che difficilmente vengono alla luce nella quotidianità della vita delle famiglie criminali. Ho raccontato le vicende di due donne con il loro carico di sentimenti che vengono a scontrarsi con lo schema rigido che caratterizza non solo la classica società meridionale, quanto poi quella in cui prevale la legge della mafia».
La narrativa, nel suo caso, si presenta come uno strumento estremamente diretto…
«Questo romanzo, nelle mie intenzioni, vorrebbe sensibilizzare i lettori verso un tema, quello che ha ad oggetto le famiglie ‘ndranghetiste e i legami interni, utilizzando lo strumento narrativo che permette una lettura leggera, agile, senza i tecnicismi e le peculiarità di un saggio giuridico-sociale. Ovviamente la mia attività giudiziaria mi ha guidato a proseguire l’iter delle due precedenti opere che si muovevano sul terreno della saggistica. Dico, praticamente, che con questo romanzo, l’approccio è più diretto, immediato: certo, c’è molta fantasia che, però, non riesce certo a velare l’ambiente nel quale opero come magistrato».
Possiamo parlare di romanzo pedagogico?
«E’ il classico tema se un magistrato possa anche inseguire un “fine pedagogico”, e non agire soltanto nel solco dei codici penale e processuale. Non posso certo dimenticare di aver posto nel mio mirino d’indagine una delle più sanguinarie - e per ciò stesso potenti…- famiglie di ‘ndrangheta della Calabria -i Mancuso di Limbadi- capace di tenere sotto stretto controllo un’intera provincia che, invece, ha come contraltare il susseguirsi di alcune delle più affascinanti località paesaggistico-turistiche della regione. Basti pensare al solo Capo Vaticano…».
Dicevamo di due donne al centro della narrazione.
«Rosa Bellomo, la protagonista, è poco più che una ragazzina quando diviene oggetto delle attenzioni da parte di Antonio Mandelli, boss affermato del territorio: la sua determinazione a non farsi fagocitare dalle spire del clan per tutelare l’avvenire di suo figlio, la porta a collaborare con lo Stato, trovando sulla propria strada la suocera Caterina, acerrima avversaria in questa scelta. Purtroppo in questi 31 anni ho conosciuto più donne come Caterina che come Rosa: ho visto donne che si erano convinte ad abbandonare le loro famiglie mafiose e che poi hanno scelto di fare un passo indietro pagandone tragicamente le conseguenze».
Vogliamo osare: l’altra donna protagonista è forse Marisa Manzini stessa?
«Forse, un po’ di autobiografia c’è. Non è un caso che il romanzo sia stato costruito sulla vita di due donne, una ragazza cresciuta troppo in fretta in un mondo governato da ancestrali leggi di sangue, e una giudice venuta dal nord che di quel mondo si è innamorata per aiutarlo e sicuramente per volerlo cambiare. Il romanzo, dunque, è costruito sull’incontro tra due donne, una proveniente dal Piemonte che scopre la Calabria e una ragazza giovanissima che si innamora del giovane boss del paese entrando in un gioco più grande di lei, rimanendo travolta dagli eventi. Scoprirà il riscatto come unica via di redenzione».
La ‘ndrangheta ha solide basi familistiche: entrare nelle sue dinamiche ne favorirebbe la sconfitta…
«Sappiamo bene l’imperscrutabilità che circonda la famiglia, soprattutto declinata al femminile, e forse non possiamo neanche immaginare l’effetto dirompente che possa provocare la notizia della collaborazione con la giustizia proprio di una donna. Ho toccato con mano come il clan dei Mancuso si fosse comportato davanti al percorso collaborativo di una propria adepta: i maschi lo percepivano come un affronto alla famiglia».
Ecco Rosa, allora, collaboratrice di giustizia…
«Una necessità tecnica, un obbligo morale prima ancora che giuridico. Il nostro dovere è sempre quello di “proteggere” chi ha scelto di stare dalla parte dello Stato…».