Ungaretti: I dubbi del poeta guerriero
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Ungaretti: I dubbi del poeta guerriero

Documenti e pittura, in mostra tra Gorizia e Monfalcone, raccontano il Primo conflitto mondiale vissuto dallo scrittore italiano sul Carso. Con la ferocia e la solidarietà, i combattimenti come una visione e la tragedia della trincea.

I colori lividi dell'Isonzo e il calore dei versi di Giuseppe Ungaretti. Le pietraie del Carso, macchiate di sangue e il dolore inquieto del soldato. Quadri d’autore e liriche melanconiche di un Porto Sepolto. Anticipando l’investitura come «Città Europea della Cultura», Gorizia, nelle sale del museo «Santa Chiara», presenta la rivisitazione di un frammento della Grande guerra proponendo - con suggestiva contaminazione - i lavori di pittori moderni, il recupero di qualche pagina di storia e i tratti della biografia di Ungaretti che, proprio in queste terre, combatté nei ranghi dell’esercito italiano. Il filo conduttore della rassegna sta proprio nell’esperienza del soldato-poeta: inizialmente promotore entusiasta del conflitto (anticamera del trionfo della giustizia) per convertirsi man mano verso posizioni più pacifiste.

Ungaretti faceva parte di quel manipolo di intellettuali che - senza se e senza ma - pretesero dall’Italia la dichiarazione di belligeranza contro Germania e Austria-Ungheria. «Interventisti», per l’appunto. Erano certi che il sangue dei soldati avrebbe anticipato il tempo della modernità. Ne era convinto anche lui - Ungaretti - suggestionato dall’ideologia del socialismo radicale e incantato dell’arte di Stéphane Mallarmé e Guillame Apollinaire. Veniva da una famiglia toscana di Lucca anche se nacque ad Alessandria d’Egitto, per via del padre che lavorava al canale di Suez. Incontrò Giovanni Papini e Ardengo Soffici. Conobbe Picasso, Proust, Balmont e Léger. Fra tutti scendevano in piazza per propagandare la necessità della guerra che, a forza di chiederla, arrivò per davvero. Come - da interventista - non presentarsi per indossare la divisa? Dapprima, per colpa di un‘infezione agli occhi, Ungaretti fu ricoverato all’ospedale di Biella. Ma quando le prime battaglie sul Carso bruciarono reparti e riserve, fu indispensabile richiamare i richiamabili e schierarli in prima linea. Lui - «classe 1888, un metro e 68 centimetri d’altezza, corporatura media, colorito bruno, occhi chiari e capelli castano lisci» - venne destinato alla brigata «Brescia» che stava a ridosso del monte San Michele. Trascorse la sua prima notte «in un fosso, affogato nel fango». Davanti, tre linee di trincee austro-ungariche e, accanto, soldati inchiodati nella melma. Bastavano dieci chilometri, lontano dall’ultimo villaggio, per trovarsi catapultati in un altro mondo. I commilitoni diventarono «compagni di pena». Quei luoghi erano in grado di cancellare i profili umani per trasformarli in «sagome innaturali». Ognuno finiva per «confondersi con la terra al punto da non sapere «se erano vestiti di stoffa o di fango».

Ungaretti, accettando i rimproveri dei superiori, tenne nel tascapane una quantità di fogli dove annotare il tormento della sua vita militare. «Un’intera nottata/ buttata vicino/ a un compagno massacrato/ con la sua bocca/ digrignata/ volta al plenilunio./ Non sono mai stato/ tanto attaccato/ alla vita». La trincea imponeva obbedienza, si accompagnava a un’oscura rassegnazione e provocava un sommesso fatalismo. Il 23 marzo 1916, il poeta spedì una lettera a Giovanni Papini. «Quanto sacrificio ci vorrà ancora per vincere?». Il poeta sembrava ancora convinto della giustezza della causa «interventista» ma si rendeva conto che l’obiettivo poteva essere raggiunto solo lastricando la strada di cadaveri. «E mi attacco alla vita con disperazione. Non posso stare in quest’azzardo di cedere tutto per nulla, senza sgomento. Ho paura di morire e, forse, dovrò presto morire».

Il conflitto invocato nelle piazza o combattuto nelle camerate degli ospedali militari non era nemmeno parente di quello vero che costringeva a montare di guardia fra topi «grossi come gatti», con la puzza dei cadaveri che prendevano la gola. «Stamani» annotò Ungaretti, «mi sono aggirato per questi budelli. C’è una fila ininterrotta di uomini stesi in lungo, addosso a una parete. Rasento l’altra per passare. La sola luce delle feritoie. Un uomo erra, di feritoia in feritoia, il fucile imbracciato, cercando la preda. In certi punti i nemici sono a tre metri. Ora c’è grande quiete». Abitualmente avveniva il contrario. «All’alba, un putiferio del diavolo. Schianti rossi, vividissimi, in mezzo ai quali si distinguevano nettamente, proiettati in alto, in uno svolazzante macabro di fantocci, corpi umani fatti a brani, gambe, braccia, torsi stroncati… una vera bolgia dantesca…». Quella notte, tra il 14 e il 15 aprile 1916, i reparti ungheresi attaccarono ma furono respinti, anche se la difesa costò 851 vittime tra morti, feriti e dispersi. «Ce la siamo appena cavata…».Un altro attacco, il 5 giugno. Più subdolo perché operato con il lancio dei gas. Ungaretti, con la sua compagnia, evitò i pericoli dell’aggressione perché aveva ottenuto il cambio per una settimana di riposo. Per questo, la sua prima comunicazione avvenne nel segno della gioia. «Caro Papini» scrisse, «mi sono fatto una marcia sotto una pioggia torrenziale. Mi sono sfogato a cantare cogli altri soldati. Non mi ricordavo più di me».

Pochi giorni di tregua potevano sembrare una benedizione. Ma, poi, venne a sapere che i commilitoni erano stati soffocati dal fosgene. La seconda lettera di Ungaretti - a poche ore di distanza dalla prima - si modellò sulla cupezza del dolore. «C’è qualche cosa di gratuito al mondo: la vita. C’è una pena che si sconta vivendo: la morte». Sul San Michele «non ci sono più foglie né cicale né grilli: c’è rimasta solo la morte…viva…».Dopo mesi di scontri spietati, qualche successo. Niente di straordinario sul piano strategico però, certo, psicologicamente, conquistare una città irredenta come Gorizia, il 9 agosto 1916, rappresentò l’occasione per dare fiato alle trombe della retorica. Ungaretti si ritrovò ottimista. «Ho visto cose meravigliose: il miracolo. I feriti non avevano dolori. Gli altri non potevano essere frenati. Era un grido di passione infinita». La brigata «Brescia» sacrificò mille uomini ma sembrò che la campagna militare avesse preso una piega favorevole. «Si vede il mare. Caro Papini, fuori di pazienza, ci siamo arrivati!» E, in poesia: «M’illumino/ d’immenso». Un’illusione. La guerra continuò come prima, con morti, ingiustizie e atrocità. Solo, si combatté una dozzina di chilometri più a est. La delusione tornò a venare i pensieri e il cuore dei soldati. Dalla «dolina dei pidocchi», Ungaretti si trovò confuso fra un singulto di ribellione e il desiderio di vitalità. «Questa carne molestata/ ha pure,/ quando meno aspetta,/ i fremiti dell’alba».

Nel 1917, Ungaretti finì all’ospedale per curarsi «il piede di trincea». Ore e giorni, quasi immobili, a pestare fango che copriva le caviglie e arrivava al ginocchio, compromettevano la circolazione del sangue e provocavano la cancrena. Un medico scrupoloso era sufficiente per far salvare la pelle ai soldati. Anche se non c’era niente di scontato. Per rispondere alle esigenze dello Stato maggiore che voleva sempre più uomini a disposizione, si sottovalutò apposta il fenomeno, rispedendo in prima linea militari già seriamente malati. «Dicevano che la guardia potevamo farla anche stando seduti…». Molte reclute che avrebbero potuto essere curate dovettero farsi amputare pezzi di gamba. A Ungaretti, tutto sommato, andò bene. Venne dichiarato «inabile alle fatiche di guerra» e assegnato a un reparto che governava il flusso di militari e mezzi diretti verso il fronte. Praticamente un impegno burocratico. Eppure, nonostante fosse abbastanza lontano dai pericoli che aveva fisicamente conosciuto, non lasciò che si attenuasse quel senso di solidarietà che aveva maturato con il «popolo della trincea». «Sono soverchiato da questa tremenda sofferenza. La vita è meravigliosa e non ci si può rassegnare alla morte. Non si può sentire il passato senza una desolazione straziante, abbattuti sotto il calcagno della morte che mostra i denti».

Il Carso prese la dimensione di un’immensa caldaia che divorava interi reggimenti. Marciavano verso il fronte reclute di vent’anni, carichi di speranze e di promesse e, nel giro di poche settimane, ne rientravano la metà, storpiati nel fisico e stroncati nel morale. I morti intasarono i cimiteri del Vallone e delle retrovie carsiche mentre gli altri continuarono a lottare contro la natura e contro il mondo solo per sopravvivere. «Si masticava limoni che servivano come disinfettante e per calmare la sete. Il fumo dei sigari non faceva sentire il fetore dei cadaveri e degli escrementi che - giocoforza - restavano sempre troppo vicino alla trincea». E quanto dolore? «Da tre anni gli uomini più cari ci spariscono. E siamo puniti per non essere morti».

A distanza di tempo, Ungaretti convenne che anche gli austriaci andavano considerati compagni di sventura: costretti ai medesimi sacrifici e obbligati a identiche privazioni. Perciò «non c’è traccia di odio per il nemico ma è totale l’avversione per la guerra che rende l’uomo troppo simile alla bestia».

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Lorenzo Del Boca