Il grido dei malati terminali contro il metodo Cappato: «Anche la nostra vita vale»
Il 26 marzo la Consulta potrebbe allargare le maglie della non punibilità del suicidio assistito: quattro inguaribili chiedono di essere ascoltati per scongiurare una deriva.
Il suicidio assistito in questi giorni resta al centro del dibattito italiano. Anzitutto in Toscana, dove lunedì è stata pubblicata nel Bollettino regionale la legge numero 5/2025 che, per prima in Italia, disciplina le modalità organizzative per l’accesso alle procedure di suicidio medicalmente assistito. Adesso nella Regione guidata da Eugenio Giani è scattato il conto alla rovescia, con le Asl toscane che, entro l’inizio di aprile, dovranno costituire le commissioni mediche per valutare le richieste degli aspiranti suicidi; richieste che, da quando depositate, dovranno ottenere risposta entro 37 giorni, tra valutazioni appunto delle commissioni (20 giorni) e - dove esse saranno positive - individuazione del medico volontario (10 giorni) a dare la morte e (7 giorni) somministrazione del farmaco dall’interessato.
Il suicidio assistito non tiene banco però solo in Toscana e nel mondo della politica, ma anche in quello giurisprudenziale. Il 26 marzo prossimo, infatti, la Corte Costituzionale è chiamata a pronunciarsi nuovamente sul suicidio assistito. Lo dovrà fare, nell’ambito del procedimento denominato «Cappato ter», con riguardo all’articolo 580 del Codice penale nella «parte in cui prevede la punibilità della condotta di chi agevola l’altrui suicidio medicalmente assistito di persona non tenuta in vita a mezzo di trattamenti di sostegno vitale, affetta da patologia irreversibile fonte di sofferenze fisiche o psicologiche intollerabili, che abbia manifestato la propria decisione in modo libero e consapevole». La questione di costituzionalità è stata sollevata dal Tribunale di Milano nel procedimento contro Marco Cappato che ha accompagnato i signori Romano ed Elena in Svizzera, dove hanno usufruito del suicidio assistito.
Ebbene, in questo processo costituzionale vogliono dire la loro anche dei malati gravi che chiedono di vivere e di essere tutelati proprio attraverso quelle garanzie che, ad oggi, l’articolo 580 del Codice penale assicura loro. Per la precisione si tratta di quattro persone affette da patologie inguaribili e non soggette a trattamenti di sostegno vitale - una signora di Palermo di 61 anni, un giovane di 30 anni della provincia di Milano, un uomo di 60 anni che abita vicino a Torino e un quarto di 66 anni, un ex commerciante di Torino - che manifestano la volontà di continuare a vivere affrontando, come già hanno fatto fino ad oggi, i momenti in cui la sofferenza si presenta come intollerabile. «Le sofferenze nella mia condizione sono tante», spiega nell’atto presentato alla Consulta l’uomo di Torino - che si trova in carrozzina e oggi muove solo un po’ un arto superiore -, «non c’è terapia che possa farmi tornare indietro o tenere completamente a bada il dolore senza provocarmi altri effetti dolorosi».
«Tuttavia», continua, «vivo le mie sofferenze dando a queste un senso grazie a ciò in cui credo e mi riconosco in possesso di una dignità che è uguale a quella di mia moglie, che non è malata, come a quella di tutti gli altri». «Chiedo quindi allo Stato», è il suo appello, «di riconoscermi per come sono: un uomo di 66 anni, malato in maniera definitiva, bisognoso di cure più efficaci, capace di intendere e di volere, che ha piena dignità e, per questo motivo, la cui vita non vale meno di quella di altre persone sane. Chiedo di essere ammesso in questa causa perché la Corte possa decidere tenendo in conto di questo interesse». Costui e le altre tre persone - assistite dagli avvocati e docenti Mario Esposito, del foro di Roma, e Carmelo Leotta, del foro di Torino - ritengono fondamentale essere ammessi in giudizio per esporre le loro ragioni in favore del rigetto della questione di costituzionalità e quindi della conservazione, tra i requisiti di non punibilità della condotta di aiuto al suicidio, del trattamento di sostegno vitale.
Se, infatti, tale requisito venisse meno, essi, ove lo chiedessero, potrebbero accedere al suicidio assistito e il terzo che li aiutasse non sarebbe punibile. Conseguentemente, se passasse la questione di legittimità portata all’attenzione della Consulta, ciò comporterebbe un pesante affievolimento della tutela del diritto alla vita di questi quattro malati - così come di tantissimi altri -, tutela che resterebbe unicamente affidata alla conservazione della loro volontà di vivere, a prescindere da un giudizio oggettivo di gravità delle loro condizioni, connesso alla necessità del trattamento di sostegno vitale. Allo stesso modo, risulterebbe compromesso il loro diritto alla dignità personale perché, ove la vita diventasse per loro disponibile, ciò significherebbe che lo Stato la riterrebbe un bene meritevole di una tutela ridotta, di fatto, rispetto alla vita delle persone sane, le quali della vita non possono disporre. L’indisponibilità di un bene è infatti indice del valore che l’ordinamento gli riconosce e, nel momento in cui lo Stato italiano riconoscesse che esistono «vite disponibili» e «vite indisponibili», esistenze degne e altre, se non di serie B, comunque non così preziose da meritare le massime garanzie.