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Il lato oscuro della scuola

I ragazzi vivono la giornata scolastica stancamente, mentre altrove trovano energie e motivazioni. La scuola disinnesca, ammala, tarpa, eppure dovrebbe fare l’esatto contrario. Perché succede? e cosa si può fare?

L’ultimo mese si affronta in apnea. A fine maggio a scuola albergano tensione e stanchezza, tra i conti che non tornano di chi rischia di perdere l’anno o di passare l’estate sui libri, le verifiche di recupero e le interrogazioni su tutto il programma che trascinano fuori aula, fuori orario, fuori di testa e gli ultimi sforzi per sistemare medie furiosamente calcolate con cellulari e calcolatrici scientifiche, ma già suggerite dai registri elettronici e colorate di verde, se le cose promettono bene, o di rosso, se ci sarà da soffrire. Ancora, si moltiplicano le sfuriate, le crisi, i piantini e i pianti a dirotto, gli ingressi in ritardo, le uscite anticipate, le assenze di chi non sta bene, di chi calcola, di chi non ce la fa e rallenta, cede, crolla. Ogni anno lo scenario è lo stesso, e gli adulti che vivono questo dramma non riescono mai – o non possono più? – intervenire per cambiare il segno di questa deriva. Si dice “studia” per tutto l’anno, si minacciano conseguenze, di dipingono scenari realistici e apocalittici insieme, ma non basta, non serve: chi arranca, arranca, e ci prova – forse – solo alla fine. Studiando, sbirciando, pregando, sperando.

La scuola, dopo la festa del primo maggio, manifesta plasticamente in quaranta giorni un disagio di cui è vittima, di cui è complice, di cui è artefice. C’è chi sostiene che i voti siano i principali responsabili di questa situazione, così si propone di darne meno, di sfumarli, di contestualizzarli, di chiamarli in altri modi, di abolirli, ma questa non è e non può essere la soluzione: non fare le analisi del sangue non cura una persona che non sta bene, così non valutare non risolve un problema ben più grande del sistema di valutazione, perché la questione tocca l’umano e chi la scuola la fa e la vive, in ruoli diversi, esposto alla fatica quotidiana, alla costanza richiesta e forse mancante, al realismo necessario per accogliere una battura d’arresto, un fallimento in una disciplina o un intero anno sghembo per mille motivi.

Eppure gli studenti, proprio in questo mese di maggio, sanno dare il meglio. Manifestazioni sportive in cui eccellono e danno prova di allenamento, sacrificio, fatica, autodeterminazione, consapevolezza; saggi artistici e musicali in cui mettono il cuore e raccolgono gli esiti di mesi di esercizio, cura del dettaglio, dedizione; spettacoli teatrali che lasciano a bocca aperta per la capacità espressiva e l’arte che sono in grado di portare dal palco al pubblico. Sono gli stessi ragazzi del mattino, quelli che sono inchiodati da ogni dato statistico e dal disagio di cui loro stessi parlano quando sono interpellati, ma in altri contesti non per forza meno probanti sanno mostrarsi toccati dalla grazia della passione.

Il tema è incandescente, perché se si parla di scuola ci sono insofferenza, delusione, noia, se invece si fa altro si vede la luce.

Qual è dunque il problema? Le questioni sono molteplici e certamente non c’è un provvedimento o una presa di posizione politica capace di risolvere una situazione così complessa.

In primis, le attese. La famiglia accoglie generalmente ogni tipo di risultato extrascolastico: benissimo se un figlio raccoglie i frutti della passione per la chitarra, per il basket o per il teatro, ma se dovesse non riuscire, o se dicesse di volere smettere, ce ne si fa una ragione e si pensa ad altro. Questo approccio vale per tutto ciò che non è scuola, ma se si tratta di studio, l’esito finale risulta sempre decisivo e senza appello: se le cose vanno male, è un fallimento, è la certificazione che ci sia qualcosa che non va, è una vergogna da non raccontare in giro, è un giudizio sull’operato del genitore stesso. Sono attese che caricano gli studenti di un peso insostenibile, soprattutto se queste attese guardano – questo sì – solo al risultato numerico, all’esito e non al percorso, dedicando durante l’anno sforzi economici per ripetizioni quasi mai risolutive, senza che si trovino energie e spazi per compensare un quadro critico prendendosi il tempo necessario per il dialogo, recuperando un rapporto impolverato dalla routine e magari non più adatto alla nuova età dei propri figli, provando a ricostruire con pazienza – e non da soli, se necessario - un’autostima in pezzi con il dialogo tra genitori e figli mettendo da parte i “te l’avevo detto”, i “ai miei tempi” e i “al tuo posto io”. E’ tutto estremamente difficile, perché si tratta di relazione, sconfitta, ripartenza, amore, delusione, pazienza, ma è ciò che fa parte della vita, proprio come ne fa parte la scuola.

Poi c’è l’offerta curricolare scolastica. E’ anacronistico che studenti di 16, 17 e 18 anni debbano dedicarsi a dieci materie differenti che richiedono attitudini diverse e che inevitabilmente non possono appassionare tutte allo stesso modo. Non bisogna guardare a ciò che fanno le scuole estere come alla panacea di tutti i mali, anche perché non si tratta di sostituire greco con falegnameria e via, però non è più proponibile una scuola pensata più di cento anni fa e basata su un gruppo classe individuato quasi casualmente, invariabile per cinque anni, obbligato a studiare anche dopo l’età dell’obbligo scolastico (la fine della seconda superiore) discipline in cui si fatica, in cui non si trova più nulla di stimolante, ma solo per obbligo – appunto - di firma. Anche qui, bando alla semplificazione: pensare a una scuola con un triennio assai più flessibile in base alla scelta degli studenti non significa sacrificare alcuni saperi fondamentali e abdicare a ciò che è fondamentale, ma è un modo per accogliere inclinazioni, attitudini e preferenze in quella fase della vita in cui si smette di studiare per dovere e si inizia a farlo per passione e – in una parola - per sé.

Infine, l’ambiente: da un lato, l’edilizia decrepita della nostra scuola, un’edilizia per lo più economica, essenziale, rabberciata per conformarsi a norme antincendio che negli anni hanno sventrato pavimentazioni e atrii; dall’altro, i docenti – che fanno la scuola ogni giorno – malpagati, male aggiornati, male selezionati e seminomadi da un istituto all’altro, in cerca di una pace professionale che spesso arriva quando gli anni della passione hanno fatto posto a quelli in cui si pensa alla pensione.

E’ un quadro desolante e lo è ancora di più se si pensa che ogni anno questa fotografia di ripropone e nessuno fa nulla. E non ci vengano a dire che c’è quel progetto in programma, o quello stanziamento di fondi europeo. La scuola spegne l’entusiasmo e questo, in una società sana, deve accendere sirene di allarme e inaugurare tavoli permanenti per rivoluzionare l’ambiente in cui i nostri figli, insieme ai figli degli altri, dovrebbero star bene, e invece stanno male.

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Marcello Bramati