Il piacione progressista multiuso diventato scomodo anche a sinistra
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Il piacione progressista multiuso diventato scomodo anche a sinistra

Una vita trascorsa a presidiare i salotti «radical» e una carriera politica dedicate a impallinare la destra, con particolare attenzione al Cavaliere. Poi le rotture anche con i suoi, dal «Fatto quotidiano» a Walter Veltroni.

«Le parole sono pietre», il suo motto da nonno ammonitore ci mancherà. Furio Colombo ha trascorso gli ultimi dieci anni a citare Carlo Levi in tv dal soggiorno romano, guardato a vista dal busto di Alessandro Magno. Salvo scagliarle un attimo dopo, quelle pietre, con leggiadra veemenza su chiunque non la pensasse come lui. Nei collegamenti dal divano rococò non sapevi mai da quale ragionamento astruso sarebbe partito il cubo di porfido ma sapevi sempre dove sarebbe finito: sulla testa di Giorgia Meloni, di Matteo Salvini, di uno a caso del centrodestra. Meglio ancora su quella di Silvio Berlusconi, che ha continuato a mirare anche dopo morto. Un’ossessione. Ieri il patriarca del giornalismo militante di sinistra se n’è andato dopo una vita di successo, di incarichi, di ditini alzati e di salti della quaglia. Aveva 94 anni.

Nel suo lungo e placido percorso il Furioso Colombo è stato tutto. Consigliere del principe Gianni Agnelli, autore della Rai tripartisan (Dc-Pci-Psi), commentatore mainstream (La Stampa, La Repubblica). E poi presidente della Fiat Usa e titolare di cattedra - foraggiata dalla Fiat - alla Columbia University, direttore cotonato de L’Unità nella stagione veltroniana e bertinottiana, deputato e senatore dei Ds e poi del Pd. E ancora autore di romanzetti erotici con lo pseudonimo di Marc Saudade come di pensosi saggi di politologia, fra i quali spicca Carriera, vale una vita?. Se non lo sapeva lui. Ha partecipato da cofondatore all’avventura del Fatto quotidiano, con finale amaro: se n’è andato sbattendo la porta due anni fa perché (da intellettuale organico devoto all’americanismo purchessia) non reggeva il vento di pluralismo che soffiava in redazione sulla guerra in Ucraina.

«Furio Colombo è tutto fuorché un montanaro», diceva con un certo fastidio Giorgio Bocca, che in montagna a vivere e anche a combattere c’era stato davvero. Il nostro invece c’è solo nato, a Chatillon in Val d’Aosta, da una famiglia israelita il capodanno del 1931. Ma è sceso subito in pianura, direzione quartieri alti. Si è laureato in giurisprudenza a Torino ed è entrato nei due club più progressisti della Sabaudia del tempo: l’Olivetti del visionario Adriano e il Gruppo 63 (con Umberto Eco, Gianni Vattimo, Angelo Guglielmi) che nei piani del potente manager Filippo Guala avrebbe dovuto innervare la Rai targata Azione cattolica. Versato per le pubbliche relazioni, Colombo è entrato presto nell’inner circle degli Agnelli, affascinati da questo elegante affabulatore socialisteggiante che si distingueva anche in radio per le analisi su costume ed ecologia. Colpo di fulmine, svolta decisiva: da quel momento il Furio sarebbe stato per sempre un’anima inquieta a stipendio fisso.

Il percorso dentro la pancia della sinistra radical è quasi scontato. Nel 1971 sottoscrisse la lettera aperta a L’Espresso contro il commissario Luigi Calabresi, nel 1972 entrò nel mondo del cinema impegnato con una parte nel film «Il caso Mattei» di Francesco Rosi. Nel novembre 1975 fu autore di un vero scoop, l’ultima intervista a Pier Paolo Pasolini, pubblicata da La Stampa di Arrigo Levi il giorno prima dell’omicidio dello scrittore. Ormai era lanciatissimo e anche per lui le Brigate Rosse erano «sedicenti».


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Giorgio Gandola