Immigration ban: perché Trump ha scelto proprio quei 7 Paesi
Perché il presidente ha chiuso le porte a Iran, Iraq, Yemen, Siria, Libia, Somalia, Sudan e non ad Arabia saudita ed Egitto
Per Lookout news
La decisione di Donald Trump di bloccare l’ingresso in America di tutti i rifugiati per 120 giorni e di sospendere per 90 l’ingresso degli immigrati provenienti da sette Paesi a maggioranza musulmana - Iran, Iraq, Yemen, Libia, Somalia, Sudan e Siria (questi ultimi a tempo indeterminato) – ruota attorno alla volontà di lanciare alcuni segnali forti. Trump segnala che la difesa dei confini nazionali è una priorità del governo, che la distanza dall’Islam radicale è totale e che tra gli alleati strategici degli Stati Uniti non rientrano più i Paesi segnalati, tra cui in particolare l’Iran. Mentre rientrano certamente Israele, Egitto e Arabia Saudita.
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Chi si stupisce oggi della messa in mora dei sette, dimentica che questo tipo di provvedimenti è stato ampiamente usato da Barack Obama (anche se con modalità diverse e per singoli Paesi) e non è così raro nel resto del mondo: per fare un esempio, i cittadini con passaporto israeliano sono banditi da oltre una decina di Stati arabi e possedere un passaporto con timbro di Tel Aviv rappresenta un problema in non poche nazioni, tra cui alcune di quelle colpite dal provvedimento.
Trump ridisegna le alleanze
Se è noto il legame di Washington con Tel Aviv, per quanto riguarda l’Egitto di Al Sisi, la scelta di non mettere al bando i suoi cittadini è funzionale alla necessità di mantenere i rapporti con un Paese considerato argine alla destabilizzazione del Mediterraneo, e di non lasciarlo nelle mani di Mosca.
Per quanto concerne la ricca e influente Arabia Saudita, non poteva essere nell’interesse degli Stati Uniti includere tra i Paesi colpiti dal blocco anche Ryad, nonostante precedenti dichiarazioni in cui Trump descriveva la nazione forte del Golfo come “terra di decapitazioni” e “uno Stato Islamico con i confini”: il suo inesauribile petrolio, i suoi investimenti miliardari (gli USA sono i principali venditori di armi all’Arabia Saudita, ndr) e la sua centralità nello scenario mondiale dell’Islam sunnita lo rendono un prezioso alleato. Lo stesso vale, in misura minore, per Emirati Arabi Uniti e Qatar.
Neanche il Pakistan poteva essere inserito nella “lista nera” in quanto Islamabad, potenza nucleare, è un alleato strategico in Asia Centrale. Lo stesso dicasi per la Turchia: paese NATO ineludibile, sede di una delle più importanti basi americane in Medio Oriente, a Incirlik, è la testa di ponte per lo sviluppo delle politiche militari nelle aree calde della guerra siro-irachena, a cavallo tra due mondi plasticamente rappresentati dal Bosforo e dallo Stretto dei Dardanelli. Inoltre, da qualche mese a questa parte è in bilico tra lo schierarsi con Washington e cedere alle sirene di Mosca: includerla nella lista avrebbe scatenato le ire di Erdogan, con conseguenze irreparabili nei rapporti bilaterali. Dubbi permangono invece sulle ragioni per cui non sono stati inseriti Afghanistan, Indonesia e Corea del Nord, forse dovute all’esiguità d’ingressi di cittadini provenienti da queste nazioni.
I sette Paesi i cui cittadini sono finiti nell’elenco dei “non graditi”, invece, erano già da tempo nel mirino di Washington, e tutto lascia pensare che lo saranno ancor di più nei prossimi anni. Quasi tutte le nazioni colpite dall’ordine esecutivo sono state a lungo considerate come “hot spot del terrore” dalla Casa Bianca, e già Barack Obama aveva promosso simili ordine esecutivi: ad esempio relativamente all’Iraq, con validità di tre mesi. Con l’eccezione dell’Iran, si tratta di Paesi i cui governi non sono più in grado di controllare i propri cittadini, e mentre gli altri sono i cosiddetti “stati falliti”.
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Yemen
Lo Yemen è un paese in aperta guerra civile: da quasi due anni vede scontrarsi i ribelli sciiti Houthi, sostenuti dall’Iran, in opposizione alla coalizione guidata dall’Arabia Saudita, che vorrebbe ripristinare il potere del presidente sunnita Mansour Hadi. In mezzo, prolifera Al Qaeda, che ha approfittato del vuoto di potere per impossessarsi di intere regioni, per lo più desertiche, e farne un porto franco internazionale per jihadisti.
Lo Yemen, non a caso, è stato teatro questa settimana della prima incursione ordinata contro Al Qaeda dal neo-presidente americano, che si è conclusa con l’uccisione di almeno 14 terroristi e la morte di un soldato americano. Un episodio che, tra l’altro, segna un cambio notevole di tattica militare da parte del Pentagono, poiché dalla politica dei droni di Obama, si è passati ai famosi “boots on the ground”: il raid è stato compiuto dal Team 6 dei Navy Seal che ha assaltato una base di Al Qaeda nella Penisola Arabica (AQAP), precisamente nella provincia di al-Bayda, per recuperare “importanti informazioni di intelligence che aiuteranno gli Stati Uniti a prevenire azioni di terrorismo contro i suoi cittadini e la gente nel mondo”.
Libia e Somalia
Come lo Yemen, anche Libia e Somalia rappresentano due Stati falliti: divorati da scontri etnici, con una presenza altissima del terrorismo internazionale e strategicamente non più rilevanti per Washington. In entrambi i teatri, peraltro, gli americani si sono distinti per approcci sbagliati che hanno provocato ritorsioni e talvolta umiliazioni: basti ricordare l’attacco all’ambasciata americana di Bengasi dell’11 settembre 2012, quando il corpo diplomatico statunitense rimase sotto assedio degli islamisti di Ansar Al Sharia per ventiquattrore, e in seguito al quale persero la vita l’ambasciatore Christopher Stevens e altri due addetti alla sicurezza.
Mentre è fin troppo noto il caso somalo della battaglia di Mogadiscio, ribattezzato “Black Hawk Down”, che nel 1993 provocò la morte di ben 18 soldati americani in un malriuscito tentativo di sedare gli scontri tra i contingenti della missione delle Nazioni Unite UNOSOM II (United Nations Operation in Somalia) e milizie agli ordini dei signori della guerra locali. In Somalia, inoltre, una significativa porzione del sud del Paese è sotto il controllo delle milizie degli Al Shabaab, che appartengono al network di Al Qaeda, mentre una parte scissionista dell’organizzazione ha giurato fedeltà allo Stato Islamico.
Iraq e Siria
L’Iraq, e di conseguenza i suoi cittadini, sono da consuetudine sotto la lente d’ingrandimento della Homeland Security americana. Le ragioni sono banalmente storiche: 1991, prima guerra in Iraq sotto la presidenza di George H. W. Bush; 2003, seconda guerra in Iraq sotto George W. Bush; 2004-2007, insurrezione e resistenza armata alla presenza militare americana; 2008-2011, scioglimento dell’esercito e disimpegno americano sotto il presidente Obama; 2014, sollevazione delle forze sunnite islamiste e conseguente nascita dello Stato Islamico nel nord del Paese.
Lo stesso dicasi per la Siria, epicentro di una guerra civile lungi dal conoscere la fine, dove Russia, Iran, Turchia e Arabia Saudita conducono una guerra per procura che ha già provocato 400mila vittime in sei anni di conflitto armato e che ha risvegliato il risentimento e le rivendicazioni territoriali di numerosi attori regionali, dai curdi ai turcomanni, dai sunniti agli alawiti. Uno stato fallito dove intere aree grigie sono oggi controllate da milizie islamiste (in primis, Stato Islamico) che ne hanno fatto una palestra per il Jihad e che difficilmente esprimeranno futuri governi democratici.
Sudan
Il Sudan, invece, è appena uscito da una lunga e sanguinosa guerra civile durata oltre vent’anni, che nel 2011 ha visto la parte meridionale procedere a una secessione che ha generato il Sud Sudan, la più giovane nazione del mondo (ha dichiarato l’indipendenza il 9 luglio 2011). L’ONU ha mantenuto la missione di peacekeeping nel neonato stato, con lo scopo di stabilire la pace e le condizioni per lo sviluppo e la sicurezza. Ma dal dicembre 2013 è in corso a fasi alterne un violento conflitto su basi etniche tra il presidente Kiir (esponente della comunità Dinka) e il suo ex vice Riek Machar (alla guida dei Nuer, principale minoranza del Paese).
Nell’area, inoltre, imperversa lo spettro degli Al Shabaab somali, le cui diramazioni arrivano in Kenya, Etiopia e, appunto, in Sud Sudan. Il Sudan, inoltre, è circondato da Paesi instabili: Boko Haram, gruppo terroristico nigeriano affiliato allo Stato Islamico, imperversa talvolta anche in Chad, mentre nella Repubblica Centrafricana scontri etnici e religiosi tra i Seleka e gli Anti-Balaka contribuiscono sensibilmente alla destabilizzazione dell’area. Senza contare il confine inesistente con la Libia, a nord-est. Il paese è una grande via di passaggio del traffico di armi e una delle principali arterie del traffico di esseri umani.
Iran
Ma ovviamente, è l’Iran il Paese che più salta agli occhi nella lista nera di Trump. Perché diffidare i cittadini iraniani e impedire loro l’ingresso negli Stati Uniti, in un’epoca di “intese cordiali” e de-escalation della crisi nucleare? La svolta moderata di Teheran, che ha portato all’elezione del presidente Hassan Rouhani e che è stata benedetta dallo stesso Barack Obama, con il quale gli iraniani hanno potuto siglare l’intesa storica sul nucleare – picco della politica estera del presidente democratico – non dev’essere apparsa una ragione sufficiente agli occhi della nuova Amministrazione per escludere il Paese dalla lista. Del resto, è comprensibile: Donald Trump vuole marcare le distanze dal suo predecessore, ha più volte annunciato che avrebbe difeso Israele a spada tratta ed è consigliato da un ebreo ortodosso, il cognato Jared Kushner, che ha la delega al Medio Oriente e che non solo promuove Gerusalemme come capitale israeliana, ma non si fida del nuovo corso iraniano: “fintanto che ci saranno gli ayatollah l’Iran non cambierà posizione su Israele” è più o meno il suo pensiero.
Tutto questo ci racconta di una ritrovata diffidenza repubblicana nei confronti del Paese mediorientale che Bush junior ribattezzò “Asse del Male” insieme a Iraq e Corea del Nord. Israele ha sempre messo in guardia Washington dal pericolo rappresentato dagli iraniani, considerato che l’accordo sul nucleare ha validità di soli quindici anni, e che Teheran ha dichiarato ripetutamente di voler distruggere Israele. Ma sopratutto, quel che interessa a Washington è l’attuale politica di Teheran volta a favorire l’espansione dello sciismo in Siria e Iraq a tutto danno dei sunniti. E dunque dell’Arabia Saudita. Una conventio ad escludendum che alienerebbe gli USA dal Medio Oriente favorendo troppo la Russia e i suoi alleati. Questo sarebbe troppo anche per Donald Trump.