India: Narendra Modi vuole mantenersi in equilibrio
La riconferma del primo ministro nelle elezioni non è scontata. Ecco perché
Ci vogliono una «fede cieca» e «un cattivo carattere» per fare il top gun. Non sono parole di Tom Cruise, nei panni dell’hollywoodiano pilota Pete «Maverick» Mitchell, ma di un uomo sconosciuto fino al mese scorso, e che ora è diventato un eroe per 1,3 miliardi di indiani: Abhinandan Varthaman, tenente colonnello dell’Indian Air Force, e volto inconfondibile dell’ultimo scontro tra India e Pakistan - particolarmente significativo adesso che il Subcontinente sta per andare al voto.
Il Mig-21 di Abhinandan era stato abbattuto sullo spazio aereo pakistano, e il pilota catturato dai soldati di Islamabad. È stato poi rilasciato «in un gesto di pace», come l’ha definito il primo ministro pakistano Imran Khan, la notte tra l’1 e il 2 marzo scorsi, quando ha varcato il confine tra i due Paesi sfoggiando i suoi baffoni neri. A quel punto il primo ministro indiano, Narendra Modi ha scritto su Twitter: «Bentornato a casa. La nazione è orgogliosa del tuo esemplare coraggio». Abhinandan Varthaman è diventato così un eroe: i barbieri di New Delhi si sono dovuti specializzare nel taglio dei baffi da pistolero come quelli del top gun indiano, attualmente richiestissimi, e un produttore di Bollywood ha comprato i diritti sul suo nome per farne il titolo di un film che lo vedrà presto protagonista...
La tensione si era impennata dopo l’attentato nel distretto di Pulwama nel Kashmir indiano, il 14 febbraio scorso, in cui sono morti 40 membri delle forze di sicurezza di New Delhi, attacco poi rivendicato dal gruppo terroristico Jaish-e-Mohammed, che ha base in Pakistan. Come rappresaglia, il governo indiano ha bombardato i «campi terroristici» nell’area pakistana di Balakot, il 26 febbraio scorso: a sua volta, Islamabad
ha alzato i propri caccia, abbattendo appunto l’aereo di Abhinandan Varthaman. Diciamolo: nessuno vuole una guerra che infiammi ulteriormente l’Asia, eppure la situazione resta delicata tra i vari attori di questa crisi. Il governo di New Delhi accusa Islamabad di non intervenire contro i terroristi, la Cina ha cercato di mantenere l’equidistanza tra i due contendenti e, di prepotenza, la disputa è entrata nella campagna elettorale indiana. Di sicuro rinfocolata dall’ennesimo «incidente di frontiera» ai primi di aprile, che proprio in Kashmir ha fatto altre tre vittime tra i soldati pakistani. Modi, che ora più che mai ha messo da parte il suo equilibrio da assiduo particante di yoga, ha mostrato decisionismo e riguadagnato consensi proprio mentre la sua stella sembrava appannarsi. Pronto appunto per il voto.
L’India sta dunque per andare a elezioni in sette turni, dall’11 aprile al 19 maggio: il 23 maggio è atteso lo spoglio delle schede dei circa 900 milioni di indiani che si recheranno alle urne. Modi sarà sfidato da Rahul Gandhi, erede della dinastia Gandhi-Nehru alla guida del Partito del Congresso indiano, ma il primo ministro uscente appare sicuro dell’esito positivo delle urne. «Guadagneremo più seggi di quanti ne abbiamo presi alle scorse elezioni» ha dichiarato il premier in un’intervista a una tv locale a fine marzo. Nel 2014 la coalizione da lui guidata aveva stravinto il confronto elettorale, realizzando la più ampia maggioranza degli ultimi 30 anni e relegando il Congresso all’opposizione. Modi, leader del Bjp (Bharatiya Janata Party, il partito principale della coalizione nazionalista indù, la National Democratic Alliance) ha mostrato i muscoli e rinfocolato l’orgoglio nazionale, non solo nei recenti duelli con il Pakistan.
Sempre a fine marzo, ha annunciato che l’India è «una potenza spaziale», certificando questo ruolo accanto a Stati Uniti, Russia e Cina, dopo il test missilistico che ha colpito un satellite in orbita a circa 300 chilometri dalla Terra. Ora, pur in assenza di previsioni affidabili, le preferenze degli elettori indiani sembrano andare verso una riconferma del primo ministro in carica. Un sondaggio di CVoters’ State of the nation vede schizzare il tasso di approvazione per Modi nelle ultime settimane, dato al 63 per cento il 7 marzo scorso, contro un gradimento del 32 per cento indicato a gennaio 2019. Se così fosse, a pochi giorni dall’appuntamento elettorale, le possibilità per Gandhi di recuperare terreno appaiono ridotte. Vero è anche che, in quest’epoca, i sondaggi vanno presi con dovuta cautela.
La giustizia sociale e la sicurezza nazionale sono i grandi temi che dividono i due candidati alla carica di primo ministro. Il Partito del Congresso aveva guadagnato consensi alla fine dello scorso anno e strappato tre Stati al Bjp (Rajastan, Chhattisgarh, Madya Pradesh) puntando sulle ineguaglianze create dal governo Modi. Gandhi ha insistito sull’economia nella sua campagna. L’offensiva dello sfidante, sul piano economico, punta al «reddito minimo garantito», annunciato il 28 gennaio scorso proprio da uno degli Stati, il Chhattisgarh, dove il Congresso è oggi più forte del Bjp: «Nessuno resterà affamato e nessuno rimarrà povero» ha promesso Gandhi, annunciando una manovra a beneficio di 250 milioni di indiani. Gandhi ha criticato Modi anche per le discriminazioni del suo governo nei confronti dei dalit, gli «intoccabili» nel tradizionale sistema di caste. L’erede della illustre dinastia si presenta come un leader democratico, a favore della giustizia sociale e del secolarismo: «Idee che il governo Modi vuole distruggere» attaccando le istituzioni politiche ed economiche indiane. Il carisma dello sfidante non è, però, paragonabile a quello del primo ministro.
L’elemento chiave per far salire i consensi è stato l’ingresso in politica della sorella di Rahul, Priyanka Gandhi Vadra, deciso dopo anni di speculazioni e di sostegno alle campagne politiche della famiglia. In lei molti vedono la capacità di attrarre le folle, e una somiglianza con la nonna, Indira Gandhi: questo ingresso sulla scena politica, scrive il quotidiano India Times, appare tempestivo e studiato per affiancare il fratello, senza offuscarne la leadership.
La sua popolarità e un ruolo di peso nello strategico Stato dello Uttar Pradesh non sembrano riuscire a nascondere i problemi del Partito del Congresso: il 14 marzo scorso è passato con il Bjp anche un lealista di lungo corso del partito dei Gandhi, Tom Vadakkan, che si è dichiarato «profondamente ferito» dalla messa in discussione dell’integrità delle Forze armate dopo il bombardamento aereo del 26 febbraio scorso. I guai per la formazione di Rahul Gandhi arrivano anche da internet: Facebook ha deciso la chiusura di oltre 700 pagine e account collegati all’opposizione indiana per «comportamento coordinato non autentico».
Modi da parte sua sfrutta l’immagine di uomo del popolo, di umili origini, capace di creare un contatto emotivo con la base dell’elettorato. Nel 2014 si è presentato come un modernizzatore che avrebbe portato posti di lavoro e prosperità. L’economia è sì cresciuta stabilmente negli anni della sua leadership, attorno al 7 per cento all’anno, ma secondo il think-tank indipendente Centre for Monitoring Indian Economy, nel 2018 il Paese ha perso 11 milioni di posti di lavoro, l’83 per cento dei quali nelle aree rurali, il cui consenso Modi punta a riconquistare con politiche economiche espansive. Buoni segnali, di recente, sono arrivati dal settore manifatturiero, ma gli investimenti privati rimangono fiacchi.
Per farli ripartire, assieme ai consumi interni, il mese scorso, a sorpresa, la Reserve Bank of India ha annunciato un taglio di un quarto di punto dei tassi di interesse, ora al 6,25 per cento: Modi era da tempo a favore dell’allentamento, a cui era invece contrario l’ex governatore, Urjit Patel, dimessosi in polemica con il primo ministro. Il successore di Patel, Shaktikanta Das, ha operato un ulteriore taglio di 25 punti base proprio a pochi giorni dall’inizio delle elezioni, portandolo, ora, al 6 per cento.
Nel lungo periodo, comunque, il quadro appare promettente. L’India, secondo stime del World Economic Forum e di Bain & company potrebbe diventare il terzo mercato al mondo - dietro Stati Uniti e Cina - per l’industria dei beni di consumo entro il 2030. Donald Trump vuole porre fine a uno schema che permette l’ingresso senza dazi negli Usa di 5,6 miliardi di merci importate dall’India. «Questa mossa» ha tagliato corto Anup Wadhawan, funzionario del ministero del Commercio «avrà un impatto economico limitato».
L’India è un mercato sempre più importante anche per l’Italia: nei primi nove mesi del 2018, secondo i dati della nostra agenzia per il commercio estero Ice, l’interscambio ha sfiorato quota 7,2 miliardi di euro, in crescita dell’8,9 per cento rispetto allo stesso periodo dell’anno precedente, con le esportazioni italiane che hanno superato di poco i 2,8 miliardi di dollari, in aumento del 12,1 per cento rispetto al gennaio-settembre 2017. E il rapporto italo-indiano tornerà in primo piano a luglio prossimo, quando la Corte di arbitrato dell’Aia, come già raccontato da Panorama, deciderà sulla vicenda dei fucilieri di Marina Massimiliano Latorre e Salvatore Girone.
In queste settimane pre-elettorali c’è un altro tema «di confine» che ha animato le discussioni politiche. Come ritorsione per l’attacco pakistano a Pulwama, l’India ha ipotizzato di usare come arma di pressione le risorse idriche, mettendo potenzialmente a rischio un accordo del 1960, il Trattato delle acque dell’Indo, spesso magnificato come un esempio di accordo di successo tra due Paesi rivali, che regola sei fiumi, su tre dei quali, quelli più a oriente, ha il pieno uso l’India, mentre su quelli più a occidente, il Pakistan.
New Delhi può comunque usare anche l’acqua dei fiumi occidentali, senza ridurne il flusso, per la produzione di energia elettrica e per l’irrigazione locale. Peccato che abbia minacciato di tagliare le risorse idriche a Islamabad, già oggi sull’orlo di una carenza d’acqua, decidendo di costruire una diga sul fiume Ravi, le cui acque scorrono in Pakistan.
La decisione rappresenta una possibile, ulteriore, fonte di conflitto tra i due Stati con l’atomica. C’è da dire che, nel Subcontinente, il controllo dell’acqua è sempre stato centrale nell’idea di nazione: l’ex primo ministro Jawaharlal Nehru aveva definito le grandi dighe «i templi della nuova India». Per opporsi ancora una volta al vicino, New Delhi ha tra le opzioni quella di sospendere la propria partecipazione agli incontri della commissione che monitora il Trattato sulle acque dell’Indo, o fermare i dati in tempo reale sui livelli di acqua che condivide con il Pakistan.
Modi è in ogni caso preoccupato anche per questo fronte aperto. «La mia mente è piena di pensieri per il Paese vicino», ha detto per giustificarsi di un lapsus durante un discorso ufficiale sulla vicenda idrica. È sicuro comunque che l’India di Modi non replicherà l’atteggiamento attendista tenuto nel 2008 dall’allora premier Manmohan Singh, dopo gli attacchi a Mumbai rivendicati dal gruppo Lashkar-e-Taiba, che fecero oltre 160 vittime. Narendra Modi, all’epoca governatore del Gujarat, fu tra i suoi critici più duri. La sicurezza nazionale resta una decisiva carta da giocare nella campagna elettorale: potrebbe distrarre gli elettori dalle riforme promesse e mai attuate, e dai posti di lavoro persi durante il suo primo mandato.
Gandhi, intanto, nel suo Manifesto presentato a New Delhi il 2 aprile scorso ha promesso di dimezzare il numero di disoccupati nei prossimi cinque anni in caso di vittoria elettorale, di aiutare le aree rurali e di avviare lo schema per il reddito minimo garantito, con un sostegno di 72 mila rupie (circa 930 euro) ai più poveri. «Non voglio che neppure una cosa contenuta nel mio Manifesto sia una bugia» ha detto alla presentazione dell’ambizioso programma, «perché ogni giorno abbiamo sentito bugie dal nostro primo ministro». Il Manifesto ha destato tuttavia varie perplessità tra gli analisti, secondo cui ci sono margini di manovra molto stretti sul piano fiscale: le promesse di Gandhi potrebbero restare una bella enunciazione. Bugie o verità, la parola passa adesso a centinaia di milioni di elettori.
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