L'India va alle urne, favorito l'estremista Narendra Modi
La famiglia Gandhi rischia di perdere il controllo del paese, a meno che non decida di allearsi con i "grillini" indiani
Il grande spettacolo delle elezioni più lunghe, complicate e imprevedibili del mondo è finalmente cominciato. Dal 7 aprile al 12 maggio 814 milioni di cittadini voteranno per il rinnovo della Camera Bassa, e a seconda degli equilibri che si consolideranno dopo l'assegnazione dei 543 seggi in palio scopriremo quale potrà essere il destino della terza potenza economica dell'Asia.
Il paese ha assolutamente bisogno di una leadership in grado di guidarla verso rinnovamento, sviluppo, riforme e riscatto economico, ma non è ancora chiaro se i due leader che oggi si contendono la poltrona da Primo Ministro siano in grado di offrire alla nazione la serietà, la sicurezza, l'impegno e la determinazione di cui ha bisogno. Se la crisi economica internazionale, anche se a scoppio ritardato, ha finito col colpire un po' tutti gli emergenti, nel Subcontinente si è sentita in maniera particolare perché ha dato il colpo di grazia a un modello di sviluppo che già scricchiolava da tempo. Il tasso di crescita, che fino a un paio di anni fa oscillava tra l’8 e il 9 per cento, oggi rischia di finire sotto il 4.
La retorica popolare ha attribuito all'inerzia e alla corruzione che contraddistingue l'intera classe dirigente la responsabilità di questo profondo malessere, ed è per questo che la campagna elettorale non ha nemmeno lontanamente sfiorato problematiche di politica estera, ma si è concentrata sui due nodi chiave: lotta alla corruzione e crescita economica.
Per gli indiani il concetto di "lotta alla corruzione" non si esaurisce con l'estromissione dal potere di tutti coloro che non governano in maniera trasparente, ma ingloba anche ideali di giustizia, rispetto delle minoranze, lotta alla povertà. La crescita economica, invece, resta legata ai numeri di sviluppo, investimenti e occupazione.
Ebbene, i due candidati attualmente in corsa per la premiership, Rahul Gandhi, primogenito di Sonia l’Italiana, per il Partito del Congresso, e il nazionalista dal passato scomodo Narendra Modi per il Bharatiya Janata Party (BJP), hanno di fatto sposato una delle due cause, ma alla luce del passato oscuro di entrambi, è estremamente difficile capire a chi gli indiani decideranno di dare fiducia.
Da un lato c'è Rahul, 44 anni, l'ennesimo Gandhi, che in più di un'occasione ha ribadito il proprio interesse ripercorrere i passi del padre Rajiv, della nonna Indira e del bisnonno Jawaharlal Nehru, riportando il Subcontinente al suo antico splendore. Eppure, da quando, più di un anno fa, la sua corsa elettorale è iniziata, lo scapolo più chiacchierato dell'India non è riuscito a dimostrare di avere il carisma, l'appeal e le doti politiche dei suoi antenati. Da qui l'incertezza sull'esito delle elezioni di maggio.
Molti ritengono che la spendibilità politica di Rahul sia seriamente compromessa dal passato straniero della madre. Tuttavia, il passato dei Gandhi è sempre stato torbido, e la decadenza della dinastia non è certo iniziata oggi. E' possibile quindi che la vera differenza tra Rahul, Rajiv e Indira non dipenda dall'incapacità del primo di affrontare e risolvere i problemi dell'India di oggi, quanto dal fatto di doversi confrontare, questo sì per la prima volta, con un'opposizione più aggressiva e competente del solito, e un'opinione pubblica che non è più disposta a tollerare gli alti e bassi di una classe politica che giudica volubile e corrotta.
Questa stessa opinione pubblica, però, non ha così tante alternative tra cui scegliere. Il candidato del Bjp Narendra Modi è infatti una delle figure più controverse che abbiamo mai partecipato a una consultazione elettorale. Modi è accusato di aver giocato un ruolo importante nel massacro che nel 2002 in Gujarat provocò la morte di circa un migliaio tra indù e musulmani, e dal quale si è sempre dissociato. Eppure, l'incapacità di evitare, in qualità di Primo Ministro del Gujarat, che gli scontri in Gujarat degenerassero, e l'ostinazione con cui da allora continua a rifiutarsi di porgere le proprie scuse alle famiglie delle vittime, gli sono costati la marginalizzazione all'interno della comunità internazionale, dove parecchi stati, Usa e Regno Unito in primis, lo hanno etichettato come persona non grata e hanno troncato qualsiasi tipo di contatto. Fino a quando non è stata formalizzata la candidatura a Premier, naturalmente.
Eppure, Modi è anche l'uomo che, puntando su benessere, rinnovamento e trasparenza, è riuscito a trasformate il Gujarat nella "risposta indiana alla Cina", grazie a una politica di industrializzazione massiccia che ha permesso di mantenere il tasso di crescita all'8,5 per cento anche negli anni della crisi. I suoi sostenitori, tra cui spiccano giovani e uomini d'affari, sono convinti che il falco del Bjp, che oggi ha 63 anni, riuscirà ad estendere la sua "ricetta miracolosa" al resto del paese. Ammettendo che le priorità economiche della nazione dovrebbero avere la precedenza sugli (eventuali) problemi delle minoranze. Del resto, il massacro del 2002 è lontano, e non ci può essere nessuna correlazione diretta tra violenze etniche e nomina di Modi.
Se i sondaggi danno il Congresso di Rahul Gandhi per spacciato, anche la vittoria di Narendra Modi non è poi così scontata. Al punto da indurre qualche analista a immaginare che la "soluzione creativa" individuata qualche mese fa per risolvere un problema di incertezza nelle maggioranze nella capitale possa essere adottata, con qualche variante e maggiore successo, anche su scala nazionale.
Appena un paio di mesi fa, infatti, quando New Delhi ha votato per il rinnovo del suo governo territoriale, l'incarico di primo ministro è stato affidato all'outsiderArvind Kejriwal, leader del movimento anti-corruzione e del "Partito dell'Uomo Comune" (Aap) su cui nessuno avrebbe mai avuto il coraggio di puntare. La prima esperienza governativa di Kejriwal non è andata particolarmente bene, ma dopo una prima fase di critiche legare al suo modo "alternativo" di fare politica, il leader dell'Aap si è ripreso dal punto di vista di consensi e affidabilità quando ha scelto di dimettersi per protestare contro quelle istituzioni che si erano rifiutate di approvare una nuova legge anti-corruzione definendo la stessa incostituzionale.
Così facendo Kejriwal ha ottenuto contemporaneamente due risultati. Da un lato ha dimostrato ai suoi sostenitori di essere un leader non disponibile a scendere a patti con i suoi principi pur di mantenere il controllo della poltrona. Dall'altro, si è liberato della gestione della capitale per concentrarsi sulle elezioni nazionali, nella speranza di replicare su più ampia scala il successo di Delhi.
Il Partito dell’Uomo Comune, nella capitale come altrove, è certamente destinato a raccogliere dissenso e frustrazioni di tutti coloro che, stanchi dello scenario politico indiano più tradizionale, faticano a trovare alternative realistiche da sostenere. Del resto, molti degli elettori che lo hanno sostenuto a Delhi lo hanno fatto essenzialmente per manifestare contemporaneamente la propria sfiducia nei confronti del partito di Rahul Gandhi e di quello di Narendra Modi. Ancora, non va dimenticato che il "mancato riscatto" in campagna elettorale dei due candidati premier ha contribuito a far crescere ulteriormente il livello di delusione e insoddisfazione all'interno dell’elettorato, assieme alla consapevolezza dell'urgenza, per l'India, di risolvere tutti quegli squilibri politici, economici e sociali che stanno rallentando lo sviluppo della nazione. Se tutto questo malumore si tramutasse in voti per l'Aap, gli equilibri post-elettorali dell'India potrebbero esserne fortemente compromessi.
Per il Partito del Congresso, assicurarsi il sostegno di Kejriwal sarebbe di fondamentale importanza per tre motivi diversi. Anzitutto permetterebbe di formare un governo a prescindere dal risultato del Bjp di Modi (sempre che quest'ultimo non ottenga un numero di preferenze tale da permettergli di creare autonomamente un esecutivo di maggioranza). In secondo luogo, immaginando che su scala nazionale l'Aap possa ottenere risultati migliori rispetto a quelli dei vari partiti regionali relativamente ai quali sia il Congresso che il Bjp hanno già sperimentato la difficoltà di costruire coalizioni stabili ed efficaci, il successo e l'eventuale alleanza tra Aap e Congresso permetterebbero a quest'ultimo di interagire all'interno di una coalizione bicolore, riducendo quindi i rischi di ritrovarsi nel corso della legislatura in una posizione di minoranza derivanti dal confrontarsi in un contesto di alleanze più ampio.
Un'alleanza di questo tipo sarebbe certamente utile anche per l'Aap, che si ritroverebbe a giocare un ruolo chiave all'interno di un governo mantenendo la libertà di dissociarsi dallo stesso se messo nella condizione di scendere a patti con gli impegni presi con gli elettori. Ancora, questa soluzione introdurrebbe sulla scena politica indiana l'Aap come terzo partito nazionale, ridimensionando ulteriormente il peso delle formazioni regionali e facendo tramontare per sempre l'ipotesi secondo cui queste ultime sarebbero state un giorno in grado di organizzarsi in un terzo fronte.
Se un partito creato da un gruppo di outsider nel 2012 che partecipa per la prima volta a una consultazione nazionale nel 2014 riuscisse da un lato a entrare in un governo di maggioranza bicolore mantenendo al suo interno un forte potere contrattuale, dall'altro a scongiurare l'ascesa di un leader nazionalista come Narendra Modi, non potrebbe certo ritenersi insoddisfatto dei risultati raggiunti. Un esito di questo tipo non necessariamente proietterebbe l'Aap verso un futuro di leadership, ma certamente trasformerebbe il partito di Kejriwal in un interlocutore difficile da trascurare. Resta da vedere se questo tipo di evoluzione possa essere effettivamente considerata utile o funzionale alla stabilità e allo sviluppo dell'India.
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