Iraq senza pace, dieci anni dopo
I marines non ci sono più, ma in un paese distrutto e retto da una nomenklatura corrotta terrorismo e guerra civile non sono scomparsi.
l primo missile aveva centrato il palazzo di Saddam Hussein, sulla sponda destra del Tigri, alle 5.34 di giovedì 20 marzo 2003, svegliando di soprassalto l’esercito dei giornalisti asserragliati all’hotel Palestine. Tre settimane dopo, il 9 aprile, i marines occupavano Baghdad e sradicavano la statua del rais in Firdus square ponendo platealmente fine al regime baathista di fronte alle telecamere. L’1 maggio sulla portaerei Abraham Lincoln un pimpante George W. Bush in tenuta da aviatore annunciava al mondo la fine delle principali operazioni militari. Alle sue spalle un incauto striscione proclamava: «Missione compiuta».
La guerra, in realtà, era soltanto all’inizio: sarebbe durata altri 10 anni con un costo di alcuni trilioni di dollari (le stime oscillano tra 2 e 5, di questi 138 miliardi solo per le società di contractor), un bilancio di 4.488 militari statunitensi uccisi (più 318 alleati, tra cui 33 italiani) e oltre 1 milione di vittime irachene, e avrebbe diviso e insanguinato il paese finendo per spingerlo nell’orbita di Teheran.
I media non ci fanno più caso, ma quasi ogni giorno in Iraq ci sono scontri e attentati con decine di vittime: 177 in gennaio, 136 in febbraio, 4.471 in tutto il 2012. E molti dossier restano aperti nel bilancio di quello che il mensile The Atlantic ha definito «il più grave errore strategico degli Usa dalla fine della Seconda guerra mondiale»: dall’inchiesta sul coinvolgimento dell’esercito americano in un programma segreto di torture nelle carceri irachene per estorcere confessioni ai detenuti, a quella londinese denominata «Al-Sweady» (un ragazzo di 19 anni ucciso a Majar al-Kabir, a nord di Bassora), che si sta concludendo dopo tre anni di indagini e che riguarda un reparto di soldati britannici sospettati di avere assassinato a sangue freddo alcuni prigionieri nel maggio 2004.
Strascichi giudiziari e furiose polemiche sono il lascito di ogni intervento armato: materia per gli storici e gli analisti politici. Ma intanto l’Iraq, a 15 mesi dal ritiro del contingente americano, è un paese disintegrato, in bilico tra la guerra civile e il baratro di una crisi sociale ed economica che un governo fra i più corrotti e incompetenti al mondo non può e non sa gestire.
Nonostante i 100 miliardi di dollari annui di introiti petroliferi Baghdad è priva di un decente sistema fognario, di sufficiente acqua potabile, di una rete elettrica funzionante, di un accettabile sistema sanitario. Più di metà della popolazione è disoccupata o sotto occupata. Il tasso di omicidi e rapimenti resta elevato. E il primo ministro sciita Nuri al-Maliki, al potere dal 2006, è ormai percepito, non solo dai sunniti, come un dittatore privo di scrupoli intento a distribuire prebende ai suoi accoliti, la nomenklatura che sfreccia per le strade di Baghdad in convogli di auto blindate e che spedisce all’estero i profitti delle speculazioni immobiliari e dei contratti ottenuti con il beneplacito del premier.
La minoranza sunnita, un quinto dei 33 milioni di iracheni, si sente discriminata e dallo scorso dicembre scende nelle strade a protestare contro il regime. Il risentimento nei confronti del governo dominato dalle fazioni sciite è palpabile soprattutto nell’ex «triangolo della morte», la provincia sunnita di Anbar. Maamun Sami Rashid, il governatore, è esplicito: «Vogliamo un sistema federale come previsto dalla costituzione. Abbiamo petrolio e gas, ma ci manca la corrente elettrica. Tutti i progetti di sviluppo devono passare da Baghdad, che controlla le nostre frontiere e non investe un soldo nemmeno per la sicurezza. Persino le nomine degli ufficiali di polizia devono essere approvate dal governo centrale».
Ancora più battaglieri sono i notabili delle potente tribù Al-Dulaimi, spina dorsale del Movimento del risveglio, le brigate armate e sponsorizzate dal Pentagono che hanno neutralizzato, almeno in buona parte dell’Anbar, le cellule di Al Qaeda. «Quella irachena è una democrazia di facciata» afferma lo sceicco Ahmed Buzaigh Abu Risha. «La corruzione dilaga, i media sono imbavagliati e al-Maliki, il nuovo Saddam, controlla i ministeri chiave, le finanze, l’esercito, la polizia, la giustizia, i servizi segreti».
I sunniti osservano con un misto di invidia e frustrazione il boom economico della regione autonoma del Kurdistan, in pieno sviluppo grazie agli investimenti stranieri (in gran parte turchi: nuovo aeroporto, edifici pubblici, alberghi, centri commerciali, nuova pipeline) e alla quota (17 per cento) sui proventi petroliferi iracheni che ha ottenuto da Baghdad.
A Fallujah, la roccaforte sunnita sull’Eufrate che i marines avevano battezzato «l’antro del male», il risentimento della popolazione è esasperato dalle conseguenze dei bombardamenti americani. A più di otto anni dall’operazione Phantom fury che nel 2004 rovesciò sulla città un diluvio di ordigni al fosforo bianco e di proiettili all’uranio impoverito, il tasso di mortalità infantile, di malformazioni genetiche, di cancro, di leucemia e di aborti spontanei supera quello registrato tra i sopravvissuti all’attacco nucleare del 1945 su Hiroshima e Nagasaki.
Un’indagine condotta su 4.800 abitanti da un teagruppom di ricercatori arabi e inglesi rivela che i casi di leucemia sono cresciuti di 38 volte, 12 volte quelli di tumori nei bambini con meno di 14 anni, mentre è decuplicato il numero delle donne affette da cancro al seno. «Per produrre un simile effetto dev’essersi verificata una massiccia esposizione ad agenti mutageni» sostiene uno degli autori dello studio, Chris Busby dell’University of Ulster. «Nessuno ci aiuta» dice a Panorama il dottor Talib Janabi, responsabile dell’unico ospedale privato rimasto aperto durante l’attacco alla città. «Nessuna ong, nessun donatore, e tanto meno il governo di Baghdad».
Nella capitale, dalla quale i cristiani sono fuggiti, le divisioni politiche e religiose sono visibili a occhio nudo. I quartieri sciiti sono circondati da muraglie di cemento armato e da posti di blocco con i vessilli neri del martire Hussein e i ritratti di Muqtada al-Sadr, che dalla sua residenza iraniana di Qom lancia strali al rivale al-Maliki. Nel frattempo il premier, già ai ferri corti con il curdo Massud Barzani, accusato di trattare accordi petroliferi sottobanco con la Exxon-Mobil, si è sbarazzato del suo vice sunnita Tareq al-Hashemi, inseguito da un mandato di cattura e costretto a riparare in Turchia. Intanto si fa sempre più concreto il rischio di contagio della guerra civile in Siria: la scorsa settimana 48 militari siriani che avevano sconfinato sono stati trucidati in un’imboscata di Al Qaeda in Iraq.
Il simulacro della democrazia irachena rischia dunque di disgregarsi, mentre i segnali dell’involuzione autoritaria di al-Maliki si moltiplicano: la persecuzione degli oppositori politici, le intimidazioni nei confronti della stampa, il nepotismo e il clientelismo sfrenato, l’impiego sistematico della tortura nelle prigioni della Zona verde gestite dalla Baghdad brigade, l’unità speciale creata da al-Maliki nel 2008. Senza contare i bilanci pubblici da cui scompaiono miliardi di dollari e le mazzette pretese per aggiudicare gli appalti.
Per evitare una spaccatura della coalizione al potere, raffreddare gli ardori dei sadristi di Muqtada e far fronte alle pressanti richieste di autonomia delle province, il premier enfatizza il pericolo sunnita. Ma così facendo rinuncia a ogni residua velleità di riconciliazione nazionale. Se n’è accorto anche il grande ayatollah Ali al-Sistani, massima autorità spirituale degli sciiti iracheni, che perciò si rifiuta di incontrare al-Maliki e i ministri del governo di Baghdad.
(ha collaborato Khalid D. Ali)