Isis: nella mente delle terroriste
Sempre più donne promuovo il radicalismo islamico sui social media. Molte lasciano l’Europa per la Siria. Cosa le spinge a diventare vestali della jihad?
Per rilasciare il giornalista giapponese Kenji Goto, e il pilota giordano Moaz al-Kassasbeh sabato 24 gennaio, l’Isis ha chiesto la liberazione di Sajda al Rishawi, aspirante terrorista suicida e vedova di un kamikaze. Il marito si fece esplodere nell’attentato al Radisson hotel di Amman in Giordania, nel 2005, nel quale persero la vita 38 invitati a una cerimonia nuziale. Le cinture di Sajda non funzionarono, venne arrestata e condannata a morte. “C’erano donne e bambini” avrebbe detto nella confessione, chissà se con un tardivo rimorso.
Il 6 gennaio scorso in un commissariato di Istanbul, la cintura, invece, ha funzionato, e la kamikaze entrata per denunciare un furto ha ucciso un poliziotto, ferendone un altro.
La presenza femminile nelle fila dei gruppi terroristici non è un fenomeno nuovo, come ricorda Mia Bloom, docente all’Università del Massachusetts Lowell nel libro Bombshell: The Many Faces of Women Terrorist (Esplosive: le molte facce delle donne terroriste). C’erano donne nei gruppi armati europei degli anni Settanta, e in quelli palestinesi, nelle Farc colombiane, nell’Ira nord irlandese e nella guerriglia Tamil dello Sri Lanka: una di loro si fece saltare in aria uccidendo Rajiv Ghandi nel 1991. Le “vedove nere” cecene erano nelcommando che assaltò il teatro Dubrovka a Mosca nel 2002.
Ciò che colpisce oggi sono i numeri, la facilità con la quale tante ragazze cresciute in Occidente sono attratte dalla jihad. Secondo l’International institute for strategic studies (Iiss) di Londra,sarebbero 5 mila le donne coinvolte nel conflitto siriano con varie mansioni. Più di un centinaio (ma è difficile stabilire la cifra precisa) sarebbero quelle giunte dall’estero. Tra loro, Maria Giulia Sergio, 27 anni, diventata Fatima Az Zahara dopo la conversione, partita dalla Maremma grazie una filiera di reclutatori albanesi. Ma anche Hayat Boumedienne, compagna di Amady Coulibaly, l’attentatore del supermercato kosher di Parigi, scappata dalla Francia il giorno dopo la carneficina al settimanale Charlie Hebdo. E Samra e Sabina, 17 e 15 anni, che ad aprile 2014 hanno lasciato Vienna per andare in Siriaa sposarsi (una di loro nel frattempo sarebbe morta).
Cosa spinge ragazze come Samra e Sabina a rinunciare ai jeans e a un buon numero di libertà personali, per indossare il niqab e diventare mogli di terroristi o vestali della jihad? “Molto dipende dalle storie personali, da ciò che accade in quel preciso momentonella loro vita” spiega Elizabeth Pearson, che sta completando un dottorato al King’s college di Londra sulla radicalizzazione femminile. “Ma probabilmente il senso di avventura, l’idea di una nuova vita da condurre secondo canoni impossibili da seguirein Europa, giocano un ruolo in questa scelta, per noi difficile da comprendere. Per loro si tratta di un diverso tipo di libertà “.
Carla Rus, psichiatra olandese, ha lavorato a lungo con ragazzi e ragazze musulmani e ha tracciato un profilo delle giovani più propense a farsi ammaliare dai “pifferai magici” dell’estremismo. “Ci sono quelle spinte da motivazioni interiori e quelle che seguono ragioni romantiche” riassume Rus. “Tra le prime abbiamo giovani che in famiglia imparano di valere meno dei fratelli maschi, ma non sono disposte ad accettarlo. Vogliono affermare la propria identità. La strada offerta loro dai valori della civiltà occidentale, tuttavia, non le soddisfa. Per questo cercano online le risposte e finiscono per entrare in gruppi radicali, dove possono ottenere maggior prestigio”. Altre non hanno una personalità così spiccata. Dagli imam su internet e dai gruppi estremisti cercano rassicurazioni per riuscire a “conciliare la necessità di essere buone musulmane con lo stile di vita che la società in cui vivono propone loro” precisa Rus. Quelle che si innamorano di un jihadista o aspirante tale finiscono per subire “un vero e proprio lavaggio del cervello. Il gruppo di cui entrano a far parte le isola, smettono di frequentare gli amici di sempre. Se non ne escono in fretta il rischio di perderle è alto” conclude Rus.
“Le donne come gli uomini diventano terroriste per vendetta, alcune per cercare una sorta di redenzione, sicuramente per convinzione ideologica e fame d’azione” conclude Lori Poloni-Staudinger, docente alla Northern Arizona University, autrice di numerosi studi sul terrorismo femminile. “Considerarle solo come eccezioni o vittime non aiuta a comprenderne le ragioni”.
Concorda Fanny Bugnon, ricercatrice a Bordeaux e autrice di un libro in uscita in Francia sul terrorismo femminile, Les "amazones de la terreure" (Le" amazzoni del terrore"). “È difficile accettare che le donne,in grado di donare la vita, siano coinvolte in un’impresa di morte. Troppo spesso, tuttavia, l’Occidente presenta le terroriste come succubi di un uomo, o affette da qualche patologia. Non si pensa che possano perseguire un disegno politico, anche all’opposto della nostra democrazia”.
La difficoltà ad accettare che una donna possa persino farsi esplodere ha provocato numerosi morti tra le truppe americane in Iraq. La prima si fece saltare in aria nel 2005, poco dopo fu imitata da un’europeaconvertita, decisa a morire da martire in Iraq. “Il mondo intero fu colto di sorpresa, ed è a questo che probabilmente miravano i gruppi terroristici: non solo fare vittime, ma creare shock e accrescere la paura” ricorda Poloni-Staudinger.
La mente dietro il ricorso alle donne kamikaze era Abu Musab Al Zarkawi, capo di al Qaeda in Iraq, progenitore dell’Isis. “Erano armi efficaci, poco costose e permettevano anche di chiamare gli uomini all’azione: “vedete, lo fanno pure le donne”” afferma Pearson. “Questa però rimane un’eccezione, difficile dire se si ripeterà. C’è un intenso dibattito in seno alle organizzazioni terroristiche islamiche per stabilire fino a che punto le donne possano essere impiegate nella jihad”.
Sui social media, rilevano varie analisi, sono molto più attive, e spesso anche più radicali, degli uomini. Ne aveva già dato prova Malika El Aroud, belga di origini marocchine, moglie dell’uomo che nel 2001 uccise Ahamd Shan Massoud (il leone del Panshir) in carcere dal 2010 per terrorismo. Fu la prima campionessa della propaganda online. “Scrivere, parlare. Questa è la mia jihad” disse in un’intervista. “Scrivere può essere una bomba”. Ma per alcune le bombedevono essere vere.