Se Israele diventa lo Stato del popolo ebraico
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Se Israele diventa lo Stato del popolo ebraico

Perché la nuova legge voluta da Netanyahu per cambiare nome al Paese rischia di dare fuoco alle polveri, umiliando la comunità arabo-israeliana

Era proprio necessario che il governo Netanyahu facesse approvare un decreto con il solo scopo di definire Israele «lo Stato-Nazione del popolo ebreo»? Perché umiliare quel 20% di cittadini arabo-israeliani o cristiani che, già oggi, si sentono cittadini di serie B? Non c'è il rischio di sancire, anche formalmente, la nascita di uno Stato etnico?

E ancora: definire Israele «lo Stato-Nazione del popolo ebreo» non è un boomerang per un Paese che si è sempre definito, orgogliosamente e  con qualche ragione, l'unica «democrazia laica» di tutto il medioriente? Che fine fanno gli insegnamenti dei grandi leader sionisti del passato come Golda Meyr e Ben Gurion che mai avrebbero approvato una legge siffatta? Perché regalare ai propri nemici uno straordinario strumento di propaganda?

È il giorno delle domande in Israele. Dei malumori. Degli interrogativi sulla propria identità, passata e futura. La legge appena licenziata dalla Knesset - che secondo il procuratore generale Yehuda Weinstein lede i principi democratici di Israele e che secondo il premier non violerà invece i diritti dei cittadini appartenenti alle minoranze etniche - ha avuto questo effetto, solo parzialmente previsto dai legislatori: riaprire il vaso di pandora delle spaccature all'interno di una società altrimenti rissosa che, esattamente come quella palestinese, ha spesso ritrovato la propria immagine (e la propria unità) solo quando si è rispecchiata nel volto deformato del nemico. Quando - in una frase - è  costretta a fare la guerra.

Il 76,4% della popolazione, secondo l'ultimo censimento, è di origini ebraiche. Gli altri sono arabi, in prevalenza di religione musulmana, ma anche cristiana o drusa

I ministri che hanno manifestato la propria contrarietà sono sette. Tra loro, due pesi massimi, come il titolare dela Giustizia Tzipi Livni e il ministro delle finanze Yair Lapid, entrambi laici. È quest'ultimo che ha lanciato l'affondo più pesante contro un provvedimento che, secondo il capo dell'opposizione laburista Yitzhak Herzog, rischia di gettare nuova benzina sul fuoco, in un momento - delicatissimo - in cui la comunità palestinese è scesa nuovamente sul piede di guerra.

«Il Likud - ha detto Lapid - si è spostato talmente a destra che oggi si troverebbe a disagio persino Benachim Begin». Non è esattamente un complimento: l'ex premier Begin, durante il Mandato britannico, fu il leader incontrastato di Irgun, un'organizzazione terroristica del cosiddetto «sionismo di destra» che non esitava a mettere le bombe nei mercati frequentati dagli arabi o dagli inglesi. La questione ora è diversa. È una questione solo terminologica. Un simbolo. Ma in Terra Santa i simboli uccidono. Come dimostra la ormai secolare querelle sul possesso dei luoghi santi della città vecchia di Gerusalemme, riesplosa nelle ultime settimane, fino agli ultimi, vili, attacchi contro i fedeli in preghiera in una sinagoga. Toccare i simboli, in Terra Santa, è più pericoloso di sparare: se Israele diventa anche formalmente, lo «Stato degli ebrei», chi accusa di «razzismo» Tel Aviv ha un'altra freccia al proprio arco. 


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Paolo Papi