Kurdistan iracheno, un'indipendenza a metà
Sull’esito scontato del voto referendario pesano le trattative con il governo di Baghdad e la politica contenitiva da parte di Turchia e Iran
Com’era prevedibile, l’esito del referendum curdo ha fotografato il momentum del Medio Oriente: è tempo di costruire nuove entità territoriali.
Dopo la dissoluzione a opera dello Stato Islamico dei confini siro-iracheni originati dal patto Sykes-Picot del 1917 e dopo una guerra civile che ha disperso milioni di persone (e che ancora non trova soluzioni), il voto compatto di oltre 5 milioni di curdi segna un passante storico per la regione.
Con il loro “sì” all’indipendenza inizia dunque la prima fase, sia pur embrionale, per la costituzione di un Kurdistan indipendente dall’Iraq.
Vale la pena di sottolineare fin da ora che, nonostante il passaggio referendario, il nuovo stato che si va concretizzando non si fonda sull’esito di un processo diplomatico, ma è basato sulla sola autorità che questa regione sembra rispettare: le armi.
È stata, infatti, la destabilizzazione dell’Iraq ad aver favorito il momento dei curdi, che oggi rappresentano una delle popolazioni più grandi al mondo senza ancora uno stato in cui riconoscersi: 30 milioni di persone la cui storia è stata segnata da persecuzioni e marginalizzazioni, e la cui etnia si è via via diluita all’interno di Paesi quali Iran, Iraq, Siria e Turchia, senza però tradursi in una piena e definitiva integrazione.
I curdi oggi rappresentano il 17% della popolazione irachena (circa 5,5 milioni su una popolazione di 32,5), mentre sono il 9% in Siria (1,5 milioni sui 18 complessivi), il 10% in Iran (8,1 milioni su un totale di 80) e ben il 18% in Turchia (14,7 milioni su 81).
Per questo motivo, ancor prima di Baghdad, sono proprio Teheran e Ankara a lamentare i possibili pericoli derivanti dal plebiscito e sempre loro gli attori che tenteranno di boicottare il processo verso una piena indipendenza.
L’Iran, non a caso, ha appena chiuso il proprio spazio aereo ai voli da e verso il Kurdistan, e sospeso tutti i collegamenti verso le province curde (sia pur su richiesta delle autorità di Baghdad). Mentre la Turchia nelle ultime settimane ha mosso le proprie armate verso l’area di Silopi, dove il Tigri sconfina in Iraq, in vista di un’eventuale manovra d’invasione qualora le cose dovessero mettersi male per gli interessi di Ankara.
I curdi non sono una realtà monolitica
Il referendum per l’indipendenza segna dunque un terremoto politico. Forse meno traumatico della creazione del Califfato nel 2014, ma probabilmente di maggior impatto perché, a differenza del primo (oggi quasi dissolto), il Kurdistan è destinato a durare.
Tuttavia, sbaglieremmo a credere che l’intera popolazione curda si riconosca o si voglia riunire sotto un’unica bandiera: anche se la ricerca dell’indipendenza è connaturata a ogni loro rivendicazione, differenti sono le ambizioni e le posizioni delle varie anime che la compongono.
I curdi: le varie anime
All’interno di ciascun Paese in cui vivono, cioè, i curdi esprimono ora la volontà di avere maggiori libertà culturali ora chiedono un riconoscimento politico ora qualcosa che non si traduce per forza con la richiesta d’indipendenza. È il caso turco, ad esempio, dove una larga parte della popolazione non punta alla secessione ma soltanto a una piena autonomia. Al contrario di quanto pretendono altri movimenti curdi e partiti politici estremisti come il PKK, che invece sono passati alla guerriglia e al terrorismo pur di prevalere su Ankara.
Esiste cioè una vasta compagine di partiti e movimenti curdi che al loro interno riflettono differenti tradizioni tribali e linguistiche, nonché divisioni politiche molto significative.
Talmente acute da aver portato a rivalità poi sconfinate nella violenza. Un esempio è offerto proprio dai due principali partiti politici curdi iracheni: anche se oggi le loro posizioni sono più vicine, il Partito democratico del Kurdistan (KDP) e l'Unione Patriottica del Kurdistan (PUK) negli anni Novanta hanno dato vita a una guerra civile che ha fatto oltre duemila morti.
Dunque, l’indipendenza del Kurdistan irachenonon significherà automaticamente la creazione di uno stato unificato del popolo curdo, dove convergerebbero automaticamente 30 milioni di cittadini. Senza contare che un simile scenario verrebbe loro impedito manu militari.
L’indipendenza di Barzani, uomo forte dell’Iraq curdo
Pertanto, nel Kurdistan che si affaccia nel nuovo Medio Oriente non confluirà il Partito dell'Unione Democratica siriano (PYD), che nel frattempo ha creato uno stato autonomo grazie alla propria ala militare (YPG).
Non vi confluirà il PKK turco, il Partito dei Lavoratori del Kurdistan di Abdullah Ocalan. E neanche il PJAK iraniano, il Partito per una Vita Libera del Kurdistan, che negli anni ha creato non pochi problemi al governo centrale di Teheran. E nemmeno il PUK dell’ex presidente Jalal Talabani, che opera nel sud iracheno, sarà una sua parte integrante.
Il Kurdistan indipendente del 25 settembre è piuttosto espressione della sola determinazione del KDP, il principale partito politico curdo iracheno, che ha lottato duramente per ottenere questo risultato.
Il loro capo è Massoud Barzani, carismatico presidente del governo regionale del Kurdistan, nonché figlio di quel Mustafa Barzani che negli anni Quaranta promosse la riscossa curda, allora frustrata dal mancato adempimento del Trattato di Sèvres del 1920 che aveva promesso ai curdi uno Stato autonomo.
È grazie a Barzani, soprannominato “il leone del Kurdistan”, se si è arrivati sin qui. Mentre è colpa del governo centrale se i margini di trattativa con Baghdad si sono ristretti sino a far fallire l’idea di uno stato federale. Così, da domani Erbil sarà una capitale e le province settentrionali a maggioranza curda - Kirkuk compresa - passeranno (ma, di fatto, già oggi è così) sotto la protezione esclusiva della polizia locale e dei peshmerga, la potente armata del Nord che conta ben 115 mila unità e che si è intestata le principali vittorie contro il Califfato.
Cosa succede ora
In ogni caso, dopo il voto popolare non ci si può aspettare una vera e propria dichiarazione d’indipendenza: servirà perlomeno un anno di tempo per costruire la nuova entità territoriale e per adattare le regole all’attuale compagine governativa. Un tempo sufficiente a Iran, Iraq e Turchia per tentare di distruggere quel progetto politico, isolando e strangolando economicamente quel territorio, che ancora oggi dipende in buona parte da sovvenzioni provenienti da Baghdad e dall’estero, affinché sia da monito per quanti sognano una secessione.
Molto dipenderà dalle commesse petrolifere: il Kurdistan iracheno, che oggi si estende per circa 25 mila kmq, ha circa 4 miliardi di barili di petrolio nelle sue riserve e altri 9 sono quelli nel sottosuolo di Kirkuk, a fronte dei 144 miliardi di barili che dichiara Baghdad.
Oggi da Mosul, Kirkuk ed Erbil si ricava intorno al 30% del greggio dell’intero Iraq. Petrolio che viene poi trasportato attraverso una serie di oleodotti che inevitabilmente attraversano Iraq e Siria prima di raggiungere il mare. Per questo, se Baghdad non intende rinunciarvi, neanche Erbil può eludere la questione. Poiché queste aree restano tra loro economicamente interdipendenti.
Questo porta a ritenere che, se da una parte la frammentazione territoriale è già una realtà per l’Iraq (ma anche per la Siria) e se all’orizzonte si profila con sempre maggior chiarezza una sorta di lottizzazione d’intere province, dall’altra parte la frammentazione politica e territoriale dovrà comunque soggiacere a logiche ineludibili.
Bene o male, cioè, si dovrà trovare il modo di collaborare. A cominciare proprio dall’interscambio forzato di beni come il petrolio. Il che, di fatto, rimette in gioco quelle potenze regionali che non hanno alcun interesse a vedere nascere un Kurdistan indipendente.