La grande nevicata dell'85
Ai primi di gennaio del 2025 saranno passati 40 anni. Una «valanga» bianca bloccò a lungo il Paese: da una parte causando immensi disagi, dall’altra fermando il solito scorrere del tempo. Un evento meteo che, simbolicamente, segnò anche il passaggio dell’Italia a una diversa epoca
Per due settimane, la neve, la fece da padrona. Strinse d’assedio le città, inchiodò i treni agli scambi e ostruì le tubature dell’acqua potabile. Obbligò le aziende a interrompere la produzione e costrinse le scuole a lasciare a casa gli studenti. Soprattutto, mise a nudo la fragilità del sistema e la sua forza di reazione. Si bloccò tutto - come in un «fermo immagine» - dove la magia di un bianco sovrano si accompagnò all’inutile slittare di gomme per strade sdrucciolevoli e all’arrancare di autoambulanze che trasportavano feriti con fratture alle gambe.
Non a caso, quella del 1985 - fra il 4 e il 14 gennaio - si segnala come La nevicata del secolo. In 248 pagine, scritte per l’editrice Il Mulino la raccontano Arnaldo Greco e Pasquale Palmieri che evidenziano «la direzione delle correnti ascensionali d’aria gelida» ma contemporaneamente - come si trattasse di analoghe rilevazioni meteo - misurano il «sentiment» dell’Italia di quarant’anni fa. Un’èra. Il presidente della Repubblica era Sandro Pertini, un socialista orgoglioso dei suoi trascorsi da partigiano, non alieno da qualche impennata d’orgoglio ma generoso e niente affatto avvezzo ai toni della politica politicante. Comparve sugli schermi della televisione per il saluto di Capodanno da rivolgere «alle concittadine e ai concittadini»: l’ultimo dei suoi sette anni di mandato. Dal Quirinale, parlò per una dozzina di minuti, senza leggere un testo preparato in anticipo e accettando il rischio di imbrogliarsi, per quel paio di volte, nello sviluppo del periodo. Sembrò inquieto. Pochi giorni prima - il 23 dicembre (1984) - il «Rapido 904» era deragliato in Val di Sambro, lasciando 16 cadaveri fra le massicciate della ferrovia. Nessun dubbio che si trattasse di un attentato, prodotto da quelle frange di terroristi che - anche con motivazioni contrapposte - si rincorrevano dando vita alla «strategia della tensione».
Sul piano internazionale, l’escalation dei contrasti prendeva il nome di Guerra fredda. Gli Stati Uniti avevano rieletto Ronald Reagan e, a Mosca, era iniziato il tempo di Konstantin Cernenko che aveva preso il posto di Jurij Andropov. Entrambi, già carichi di arsenali atomici in grado di spappolare il mondo, progettavano di avviare la produzione di armamenti ancora più sofisticati. Al momento, solo il cinema - fra invasioni di extraterrestri e conflitti «stellari» - poteva suggerire una vaga percezione della loro capacità distruttiva. E poi la disoccupazione, soprattutto quella dei giovani che, dopo anni d’impegno nello studio, cominciavano a faticare per ottenere il primo impiego. Le ricerche dei sociologi erano già in grado di denunciare i profili di un Paese che marciava con due velocità. Le regioni Centro-settentrionali potevano vantare il Pil più alto della media europea mentre quelle del Centro-sud stagnavano sul fondo alla classifica. Di conseguenza: la mezza Italia del Nord pativa un «indice di povertà relativa» equivalente al 4,5 che s’impennava, nell’altra metà, arrivando a toccare il 22,6.
Proprio al termine dell’anno, nel corso di un’intervista rilasciata al direttore della Repubblica Eugenio Scalfari, il presidente dell’allora Fiat Giovanni Agnelli indicò una sua ricetta per parare i contraccolpi di una crisi già alle porte: prepensionamenti a 50 anni, salario flessibile e tempo di lavoro allungato a 72 ore settimanali, sul modello della Corea del Sud dove la disoccupazione era fenomeno sconosciuto. Difficile - con il senno «del poi» - giudicare il valore della proposta dal momento che, da allora in avanti - fra il limite di «quota cento» per lasciare il lavoro e il «salario minimo garantito» - sono stati attuati (o si pretenderebbe di introdurre) provvedimenti di segno contrario. Ai crucci di Pertini e di chi intravvedeva i profili di un futuro difficile, fece riscontro la voglia di festa della gente che, quasi noncurante, si preoccupò di organizzarsi in modo che l’arrivo del 1985 fosse adeguatamente celebrato. Nelle ultime settimane dell’84 vennero spesi 35 mila miliardi. L’economia funzionava ancora con le lire e la cifra sembra spaventosa quasi si trattasse del rendiconto del bilancio di uno Stato. Le tavole ingaggiarono una sorta di partita fra lo champagne «in vena di rivincita» e lo spumante che «non si spaventò della concorrenza» con le bottiglie francesi. Venne registrato il boom di vendite per cosmetici e alcolici («con il trionfo del whisky») ma importante fu il risultato ottenuto dalle librerie dove gli acquirenti mostrarono preferenza per «pubblicazioni fiabesche».
Milioni di persone, i regali, se li scambiarono in località turistiche con la montagna ad attirare comitive sempre più ampie e in arrivo sempre più da lontano. La discese sugli sci non erano più appannaggio dei «locali» ma interessavano «i cittadini» per i quali «la settimana bianca» stava diventando un must da onorare. Ne approfittarono anche Fantozzi e le compagnie comiche che presentavano i «cinepanettoni». Le gag al Sestrière e a Cortina d’Ampezzo riempivano di risate le sale di proiezione e, di volta in volta, sconfiggevano il record d’incassi che loro stessi avevano conquistato. Per quel Capodanno, se c’era un cruccio, riguardava lo scarso innevamento delle piste. Occorreva ricorrere a quello artificiale che, però, per il terreno troppo caldo, si scioglieva rapidamente. Dalle 11 del mattino, lo slalom andava fatto per evitare le pozzanghere...Ecco che il freddo - come per rispettare la legge del contrappasso - arrivò all’improvviso e cominciò a rimontare l’Italia partendo da Sud. Prima venti centimetri poi altri venti e venti ancora. Il Papa celebrò l’Angelus in una piazza San Pietro imbiancata e flagellata da un vento di tramontana insistente. Il termometro si abbassò. Foggia toccò il record negativo di -11 gradi centigradi ma in Sicilia, Basilicata, Lazio e Calabria le temperature non furono che di poco più clementi. Gelò il Tevere - così come a Firenze l’Arno - e, per trovare un precedente analogo, fu necessario rispolverare un passaggio di Tito Livio che raccontava una delle sue Storie.
Il primo cittadino di Roma si chiamava Ugo Vetere e affrontò l’emergenza con i (pochi) mezzi a disposizione in una città che, alla prima nevicata, la prese con allegria ma che, man mano che le strade diventarono impraticabili, precipitò nel caos. Il sindaco era un comunista di spicco del Pci e, oltre a dover affrontare i guai di ordine pubblico, si trovò bersagliato dalle accuse d’inefficienza che gli vennero dai banchi dell’opposizione. I democristiani, in minoranza in Campidoglio, non gli risparmiarono critiche e ironie che i colleghi della Democrazia cristiana che stavano in maggioranza in Parlamento e al governo rilanciarono, amplificandole.Tempo una settimana e la tormenta si spostò al Nord risalendo la Penisola. Con progressione inesorabili investì Firenze, poi Bologna, Reggio Emilia, Piacenza e arrivò a Milano in quel pomeriggio del 13 gennaio 1985. Per 72 ore, non diede tregua. Il peso della neve sfondò il Velodromo Vigorelli e la copertura «a stella» del «Palazzone di San Siro» che aveva la pretesa di far concorrenza al Madison Square Garden di New York. Strappò tetti di case, fece stramazzare capannoni e, una volta ghiacciata, fece esplodere impianti idroelettrici.Il sindaco Carlo Tognoli fu costretto a mobilitare l’esercito. Come in guerra. Milano che aveva criticato Roma per l’inefficienza degli interventi anti-neve (solito derby tra capitali, quella politica e quella economica, rappresentata come «il motore del Paese») si trovò a dover fare i conti con la stessa emergenza. Il presidente del consiglio Bettino Craxi concordò una serie di iniziative con il ministro Giuseppe Zamberletti, che era titolare del dicastero per la Protezione Civile e proclamò lo stato d’emergenza.
Ricorrenze come la nevicata del 1985 alimentano il mercato dei ricordi. Si parlò del «D-Day del gelo», dell’arrivo del «nemico bianco» e dell’«allarme rosso» per contrastarne l’avanzata. Vasco Rossi era «perso dentro i fatti suoi» e i Righeira, a dispetto del cambio di stagione, seguitavano a invitare «a la Playa». Gli studenti stavano avviando una stagione di proteste e il sindacato polacco di Solidarnosc conquistava l’attenzione internazionale. François Mitterand governava dall’Eliseo mentre a Bruxelles, finita la stagione di Simone Veil, il parlamento europeo fu affidato alla presidenza dell’olandese Pietr Dankert.In Italia, l’economia sembrava in salute e stimolava la voglia di spendere. La gente (con percentuali importanti) si dichiarava «contenta» della propria condizione lavorativa, «soddisfatta» della vita privata e «fiduciosa» nel futuro. Stagione «di riflusso» dopo il dramma del terrorismo, non ne voleva sapere di politica e preferiva alimentare l’industria del tempo libero che proponeva vacanze, distrazioni e discoteche. Ma il Paese, coperto di neve, offrì un’immagine di desolante impotenza. Come se i sogni e le ambizioni - pur in quell’inedita atmosfera in cui tutto era sospeso - riguardassero soltanto i singoli cittadini e non lo Stato per intero.