La lotta al terrorismo e l’utopia di un FBI europea
Senza uniformità professionale, legislativa e culturale, il progetto di un unico servizio segreto non potrà mai funzionare. Chi ha intenzione di farlo?
Per Lookout news
All’indomani dell’ennesimo attentato terroristico in Europa per opera dello Stato Islamico, che torna a mietere vittime innocenti stavolta beffando la nostra capitale Bruxelles, ecco riaffacciarsi le facili soluzioni degli “esperti di mestiere” che teorizzano un servizio d’intelligence comunitario, per risolvere definitivamente la minaccia jihadista.
Sono sempre più numerosi i politici dell’Unione che, domandandosi come sarà mai possibile sconfiggere il terrorismo, avanzano questa idea (peraltro non nuova). Se il fatto che si ragioni collettivamente su un tema difficile e intricato come il controterrorismo è certo positivo, tuttavia questo non ci deve illudere troppo sulla concretizzazione di un simile progetto.
Un progetto prematuro
Anzitutto, va ricordato che lo scopo di un servizio segreto è raccogliere informazioni perché il proprio governo possa prendere le decisioni migliori per il proprio paese. Ora, che si possa anche solo pensare di generare in seno ai 28 paesi membri dell’Unione Europea un unico servizio d’intelligence - quando ancora non si riesce a mettersi d’accordo su obiettivi condivisi o su leggi che già esistono, quando non abbiamo un’istituzione politica unificata, né un esercito o una polizia europee - tutto ciò trasforma tale ragionamento in un mero riempitivo per i telegiornali.
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Finché non ci saranno un ministero dell’Interno, della Giustizia e un ministero degli Esteri unici e condivisi (l’Alto commissario per la Politica Estera e Sicurezza Comune, Federica Mogherini, in questo senso ha le armi spuntate), è fuori luogo anche solo ragionare del progetto di un’intelligence che risponda a una sola istituzione.
Per non parlare della costruzione degli Stati Uniti d’Europa: l’idea di un solo paese per più stati, dotato di un assetto istituzionale sul modello federativo americano, può non piacere a tutti ma è forse la migliore idea che abbiamo mai espresso come continente. Ciò nonostante, dietro di essa non vi sono proposte solide né reali passi in avanti in vista.
L’esempio dell’Interpol
Il che è ovviamente un peccato, ma è esattamente la ragione per la quale è prematuro parlare di un servizio segreto condiviso. Si dirà che basterebbe lo scambio d’informazioni tra agenzie d’intelligence. Qualcosa di simile esiste già: si chiama Interpol e dal 1923 si occupa specificatamente di cooperazione tra polizie e del contrasto del crimine internazionale.
Certo, quest’organizzazione intergovernativa non è relegata alla sola Europa (ne fanno anzi parte 190 paesi con il placet dell’ONU), ma la sua efficacia nel contrasto al crimine si basa su metodi non dissimili da quelli che si vorrebbero ottenere oggi dal raccordo tra servizi d’intelligence, perché si basa sullo scambio d’informazioni e su database condivisi.
Nel caso dell’attentato a Bruxelles, l'Interpol aveva diffuso già da agosto a tutte le polizie del mondo un’allerta di livello rosso per Khalid El Bakraoui, uno dei kamikaze che hanno agito all’aeroporto. Ma a cosa è servito?
Il punto è che se l’interlocutore non è professionalmente preparato a ricevere e analizzare adeguatamente l’informazione che viene scambiata, essa non ha alcuna utilità e non può essere sfruttata adeguatamente.
Il Belgio, non va mai dimenticato, è un piccolo paese e, per sua fortuna, non ha dovuto fronteggiare minacce gravi come ad esempio l’Italia con le Brigate Rosse. In breve, i suoi servizi di sicurezza non sono preparati a simili sfide. Ne consegue che senza uniformità professionale, legislativa e anche culturale tra agenzie d’intelligence, il progetto di un’intelligence unica non potrà mai funzionare a dovere.
Intelligence condivisa, il caso inglese
Pensiamo solo a come risponderebbe a una simile proposta un paese come il Regno Unito, che vanta forse il migliore servizio segreto al mondo - suddiviso in MI5 e MI6, rispettivamente per le minacce interne (controspionaggio) ed esterne (spionaggio) - e che dopo gli attentati di Londra del 2005 ha preso seri provvedimenti affinché tali atti non si ripetano più in patria.
Quando chiedevano alla direttrice dell’MI5 Eliza Manningham-Buller del suo ruolo, ella rispondeva che non era al servizio del governo britannico, ma serviva direttamente Sua Maestà. Come a dire che lavorava esclusivamente per il Regno Unito e non per il premier di turno.
Ora, pensare che un direttore dell’MI5 condivida semplicemente i metodi unici con cui l’Inghilterra conduce le proprie operazioni segrete, collide fortemente con una realtà dove Londra vede la stessa Unione Europea come una minaccia diretta alla sua indipendenza, uno scomodo legislatore e anche un concorrente in campo economico. E lo stesso esempio potremmo fare per la Francia, seppur con alcuni distinguo.
Tali paesi, abituati a considerarsi ancora “impero” e con interessi vitali in numerose aree del mondo dove l’Europa neanche esiste come rappresentanza, non accetteranno facilmente una diminuzione della propria indipendenza e una diluizione del proprio potere in favore di altri.
Il concetto stesso di sovranità pretende che non si scambino informazioni neanche con i propri vicini di casa, se non per un utile personale. Anche questo è il compito dell’intelligence: spiare il vicino di casa, perché anch’esso potrebbe rivelarsi un nemico. Si aggiunga che il Regno Unito a giugno voterà la “Brexit”, ovvero l’uscita dall’Unione Europea, per referendum.
Il Club di Berna
Certamente, esempi virtuosi di scambio d’informazioni tra le intelligence straniere ne esistono. Il Club de Berne, ad esempio, è un appuntamento fisso che si svolge nella cittadina svizzera, dove i direttori dei servizi d’intelligence e di sicurezza degli Stati Membri dell’Unione Europea, più la Norvegia e la Svizzera, s’incontrano regolarmente per discutere argomenti d’intelligence e di sicurezza e scambiano informazioni attraverso il CTG, il Gruppo per il Contro-Terrorismo (appositamente istituito all’indomani dell’11 settembre 2001).
Ma, oltre a ciò, si fa ben poco per stimolare e favorire non solo la condivisione d’informazioni ma anche le tecniche d’investigazione necessarie ad affrontare le sfide che il terrorismo islamico ci pone davanti con crescente violenza e determinazione.
Eppure, se è vero ciò che trapela dai servizi segreti israeliani, e cioè che oggi a Raqqa, capitale siriana dello Stato Islamico, esiste una sorta di “Ministero per le Operazioni all’Estero”, che ha pianificato e sta coordinando una lunga campagna di attacchi contro le città europee, allora è tempo di dotarci davvero di simili strumenti di difesa.
Volendo vedere il bicchiere mezzo pieno, l’attentato di Bruxelles - condotto da terroristi cialtroni e non certo altamente specializzati - ci dice che il momento è adesso. I nostri politici devono sfruttare l’unica finestra temporale possibile per tentare di costruire quella grande intuizione che è stata l’Europa unita, impegnandosi seriamente nel progetto politico, istituzionale e militare, prima che quest’occasione sfumi insieme con l’Unione Europea stessa. E prima che l’estremismo prenda il sopravvento e ci confermi che dobbiamo abituarci a uno scenario israeliano, dove la nuova normalità impone anche alla popolazione civile uno stato di guerra perenne.