La “nostalgia americana” di Al Sisi
L’ex generale, candidato favorito alle elezioni presidenziali del 26 e 27 maggio, manda segnali distensivi agli Stati Uniti. Obama si fiderà dei militari egiziani?
Abdel Fattah Al Sisi non è tipo da farsi trovare impreparato. Nonostante gli ultimi sondaggi lo diano nettamente in testa sul suo sfidante Hamdeen Sabahi nella corsa alle presidenziali egiziane del 26 e 27 maggio, a pochi giorni dal voto l’ex generale ha deciso comunque di non lasciare nulla al caso cercando oltreconfine quel sostegno che gli tornerà utile soprattutto per rafforzare la sua presidenza quando sarà al potere.
Certo del sostegno trasversale di cui gode in patria, dove è considerato da ampi strati della popolazione una sorta salvatore dell’Egitto dopo aver guidato il golpe che il 3 luglio 2013 portò alla destituzione dell’ex presidente Mohamed Morsi e alla fine della fallimentare esperienza di governo dei Fratelli Musulmani, due giorni fa Al Sisi ha scelto l’agenzia di stampaReutersper mandare dei segnali ben precisi all’interlocutore più importante per il destino politico ed economico dell’Egitto, gli Stati Uniti.
L’ex generale riconosce che la situazione attuale del Paese è molto complicata. Dalla prima rivoluzione del 2011, che portò alla caduta di Hosni Mubarak, gli attacchi terroristici sono aumentati e l’insurrezione jihadista ha fatto della penisola del Sinai la propria roccaforte. A risentirne non è stata solo la sicurezza ma anche ovviamente l’economia, indebolita dal crollo del turismo (la più importante fonte di introiti per le casse dello Stato) e dalla fuga di molti investitori esteri. “Dobbiamo ammettere che la situazione economica in Egitto è difficile - esordisce Al Sisi -. Più del 50% della popolazione vive nella povertà, c’è troppa disoccupazione, gli egiziani giustamente aspirano a un tenore di vita migliore”. I petroldollari arrivati dalle monarchie del Golfo dopo il rovesciamento del governo dei Fratelli Musulmani hanno permesso al Paese di galleggiare. Al Sisi però sa che le poche speranze che l’Egitto ha di tornare a regime dipendono in buona parte dal risanamento dei rapporti diplomatici con Washington, congelati da quando gli USA nell’ottobre scorso hanno deciso di bloccare gli aiuti militari destinati all’Egitto (il cui valore annuo è di 1,3 miliardi di dollari) in risposta alla violenta repressione esercitata dai militari sui Fratelli Musulmani.
“Adesso però - ha spiegato Al Sisi - nel Sinai stiamo combattendo una guerra contro il terrorismo. L’obiettivo è fare in modo che questa regione non si trasformi in una base per il terrorismo internazionale. Se l’Egitto è instabile, allora l’intera regione del Nord Africa è instabile. Abbiamo bisogno del sostegno americano per evitare che ciò accada”. Chiaro il messaggio rivolto al presidente Barack Obama. Per rispondere in maniera efficace alle spinte jihadiste che dal Sahara e dal Nord Africa rischiano di travolgere l’Egitto e di minacciare direttamente l’Occidente, Il Cairo ha bisogno che Washington riapra i rubinetti dei finanziamenti. Il rischio, altrimenti, è trovarsi sul versante africano del Mediterraneo una nuova Libia.
- La questione israelo-palestinese
Nell’operazione di ricucitura delle relazioni con l’Occidente, Al Sisi fa sapientemente un passo in avanti anche sulla questione israelo-palestinese, convinto che solo attraverso una distensione dei rapporti con Tel Aviv l’Egitto possa ambire a recuperare l’immagine di Paese affidabile che per decenni gli è stata riconosciuta a livello internazionale. “Abbiamo rispettato il trattato di pace con Israele e continueremo a farlo - afferma -. Adesso dobbiamo muoverci tutti nella direzione della pace, che è stata congelata per molti anni. Siamo pronti a svolgere un ruolo che permetterà di conseguire questa pace e la sicurezza per tutta la regione”.
Dichiarazioni importanti attraverso le quali Al Sisi conta di riuscire a trasmettere un’immagine forte e sicura di sé e del nuovo Egitto dei militari, ponendosi in continuità rispetto a una tradizione ormai lunga più di mezzo secolo, che dalla fine della monarchia nel 1952 vede uomini delle forze armate alla guida del Paese salvo la parentesi sfortunata di Morsi.
- La campagna elettorale
Prima di indicare le linee guida del futuro egiziano, ci sono però da vincere le elezioni. L’Autorità Egiziana per i Sondaggi e la Mobilitazione Pubblica (CAPMAS) ha reso noto che attualmente il numero dei votanti registrati è di 53 milioni (su una popolazione totale di quasi 87 milioni). La vigilia del voto continua a essere molto tesa, come dimostrano i recenti disordini ed episodi di violenza. Pochi giorni fa il quartier generale dell’ufficio politico di Al Sisi nel governatorato di Sharqiya è stato dato alle fiamme da un gruppo di estremisti, mentre il coordinatore della sua campagna, l’ex generale Mostafa Kadry, si è dimesso lamentando l’eccessiva presenza di troppe figure legare a Mubarak nell’entourage del candidato.
Sullo sfondo resta aperta la questione dei Fratelli Musulmani, colpiti duramente dopo la nuova ondata di condanne a morte che vede coinvolto anche la guida spirituale dell’organizzazione Mohammed Badie. La corsa di Al Sisi non rischia comunque di risentirne. La sua macchina elettorale è imponente e stando agli ultimi dati ufficiali tra conferenze stampa, spazi radio e tv e manifesti pubblicitari avrebbe già speso 12 milioni di lire egiziane (oltre 1.200.000 euro), un’enormità rispetto alla base volontaristica cui dice attingere lo sfidante Sabahi.
Forte anche dell’appoggio dell’ultima ora del partito islamista Al Nour, ex alleato dei Fratelli Musulmani, nelle ultime settimane Al Sisi ha alternato slogan altisonanti (“con me al potere i Fratelli musulmani non esisteranno più”) a toni moderati (“cento giorni per cambiare le cose non sono sufficienti, ci vorranno almeno due anni di lavoro serio e continuo per ottenere dei miglioramenti”). Il destino dell’Egitto appare comunque ormai un affare nelle sue mani. Gli Stati Uniti devono farsene una ragione. Dopo aver fallito puntando tutto sui Fratelli Musulmani, Obama potrebbe trovarsi a concedere una chance anche ai militari egiziani, allineandosi, sia pur tardivamente, alla strategia del pragatmismo già attuata da Arabia Saudita e Russia.