Breve storia delle larghe intese italiane
Perché fu varato il compromesso storico tra Dc e Pci evocato dal capo dello Stato
Le larghe intese e la solidarietà nazionale, il compromesso storico e le utili convergenze democratiche, la mano tesa e la benevola attesa sono soltanto alcune della miriade di definizioni che sono entrate a far parte del grande dizionario degli aforismi della Prima Repubblica per spiegare gli accordi possibili tra maggioranza e opposizioni.
Il Capo dello Stato, Giorgio Napolitano, ricordando l’amico Gerardo Chiaromonte, ha evocato un ritorno a quel tipo di soluzione semantica nella speranza di poter risolvere la crisi attuale, che al contrario è reale.
Ma come nacquero le larghe intese e qual era la situazione politica e sociale di quegli anni? Nell’autunno del 1973, il segretario del Pci, Enrico Berlinguer, attraverso tre suoi interventi apparsi sul settimanale comunista Rinascita, proponeva di realizzare un compromesso storico con le forze cattoliche soprattutto alla luce dei drammatici avvenimenti che stavano caratterizzando quei giorni l’Italia e il mondo. L’11 settembre la giunta militare guidata dal generale Augusto Pinochet aveva deposto e assassinato il presidente Salvador Allende instaurando una dittatura che sarebbe durata fino al 1990; a distanza di pochi giorni, il 6 ottobre, in Medio Oriente scoppiava l’ennesima guerra Arabo-Israeliana che avrebbe causato la crisi del petrolio. Dal punto di vista interno l’Italia, naturalmente, non se la passava certo meglio: negli ultimi giorni di agosto a Napoli era scoppiata un’epidemia di colera che avrebbe provocato la morte di una ventina di persone; come conseguenza della guerra del Kippur il 30 novembre scattavano le norme di austerità varate dal quarto governo Rumor e per cercare di arginare la crisi energetica il 2 dicembre venivano inaugurate le domeniche a piedi; per finire, proprio per non farci mancare nulla, le sedicenti Brigate Rosse (termine con il quale per anni si sottovalutò il pericolo) cominciavano a fare le loro prime vittime con il rapimento del direttore del personale della Fiat, Ettore Amerio.
A distanza di tre anni da quel drammatico ’73, l’Italia tornava alle urne il 20 giugno per il rinnovo del Parlamento. Il risultato era stato rivoluzionario con la Dc che manteneva il suo 38% ma, soprattutto, il Pci raggiungeva il 34%, record assoluto della sua storia. A distanza di oltre un mese dalle elezioni, il 23 luglio il Presidente della Repubblica, Giovanni Leone, affidava l’incarico di formare il governo a Giulio Andreotti. Il programma presentato dal presidente incaricato alle Camere, era composto da cinque punti (a differenza degli otto di Bersani): Funzionalità ed efficienza dell’amministrazione pubblica; Problemi giudiziari; Politica economica; Politica sociale; Politica comunitaria e internazionale. E poi ci si chiede perché in Italia “tutto cambia affinché nulla cambi”.
Non potendo contare su un accordo con le forze socialiste per raggiungere l’agognato 51%, Berlinguer virò sulla non sfiducia nella speranza che da lì a qualche anno il partito comunista avrebbe potuto puntare al sorpasso che non avvenne mai. Il governo Andreotti, monocolore non sfiduciato, nacque in piena estate, il 12 agosto (i sì furono 258 e le astensioni 303), i paradossi italiani.
Diceva Indro Montanelli nella sua rubrica Controcorrente su La Stampa dell’11 novembre 1973: “Se la nostra classe politica impegnasse nella soluzione dei problemi la stessa immaginazione che impegna nel conio delle formule, a quest’ora il nostro Paese sarebbe il più efficiente d’Europa”.
Se, quell’impegno evocato dal grande giornalista, fosse stato realmente profuso da tutte le classi politiche che si sono succedute dal dopoguerra, probabilmente non saremmo oggi, anno domini 2013, a evocare ancora un governo della non sfiducia o delle larghe intese nella vana speranza di dare un esecutivo al nostro Paese.