Le commissioni parlamentari e il ritorno dell'uso personale della politica
Il caso-Bindi ma non solo: quando le inchieste servono (forse) per tornare alla ribalta
Un uso personalistico della politica e del ruolo non è mai stato così infrequente nella storia patria. Nei lustri della balena bianca e della macchina comunista militarmente organizzata sui territori, si costruivano autostrade i cui caselli d’uscita corrispondevano all’abitazione del ministro dei Lavori Pubblici di turno. Si assumevano torme di parenti e votanti e si creava in pancia al carrozzone pubblico il mitico “milione” di posti di lavoro tanto vagheggiato in epoca contemporanea. Si favorivano fortune industriali per cordate di amici. Si assistevano schiere di petenti e petulanti inventando posizioni di vera o presunta utilità sociale. Il tutto per radicare consensi per singoli e potentati locali. L’uso e l’abuso del proprio ufficio politico erano una costante per certi versi “tollerata” o comunque anestetizzata nella società del particulare e del “a Frà che te serve”. Rimarranno per sempre scolpite nell’iconografia di specie figure come quelle, per citarne una, di Remo Gaspari, il ras abruzzese che arrivò allo stadio Olimpico con l’elicottero dei pompieri per la partita della Roma. Il crollo della prima Repubblica, scandali, inchieste ed una crescente insofferenza popolare hanno fatto si che negli anni questo “abuso di posizione dominante” subisse una propria metamorfosi, spostando il prezzo della personalizzazione dell’incarico dalla greppia all’immagine, dalla becera utilità di tasca alla visibilità del ruolo. E questo trend è andato ancora più affermandosi in epoca di “rottamazione assistita” dove i professionisti della politica di lungo corso hanno visto appannarsi le proprie rendite di posizione costruite in decenni di militanza e di struscio sui boulevard del consociativismo più convinto o alla bouvette parlamentare dove, tra una spigola a due euro e cinquanta ed un calice di bollicine nostrane incluso, il mondo di mezzo prendeva il sopravvento.
Quando, alcuni giorni fa, ci si è interrogati sull’uso tailor made del proprio ruolo da parte della Presidente della Commissione Antimafia Rosaria Bindi, Rosy per vezzo (cit. De Luca) la quale spintasi oltre la lettera dell’incarico ha allestito delle moderne liste di proscrizione ribattezzandole “liste degli impresentabili”, il pensiero è subito corso alla crisi interiore che deve avere oppresso la pia parlamentare dal momento in cui il nuovo corso renziano l’ha inserita in cima alla lista dei professionisti della politica da confinare alla memoria del tempo che fu. Ed in effetti l’iniziativa ad un giorno dalle elezioni è parsa potersi ascrivere proprio a quel desiderio frustrato di visibilità per il proprio ruolo e di affermazione della propria rilevanza nel pubblico dibattito.
Del resto le Commissioni parlamentari e quella antimafia in particolare, costituiscono ribalte eccellenti per rivendicare rendite di posizione piegando alle tendenze del momento i lavori delle stesse. Di questo, ad onor del vero, solo qualche tempo fa si era potuto rilevare, tra il silenzio generale dei media tranne che per un paio di servizi de “Le Iene”, un altro esempio illuminante e, per certi versi, assai più grave. La vicenda riguardava il commissariamento da parte del Tribunale di Palermo di due colossi dell’energia, Gas Natural Italia facente capo all’omonimo colosso spagnolo ed Italgas, principale società di distribuzione del gas naturale nel nostro paese appartenente al Gruppo Snam. Sulla base di fumosi rapporti con soggetti presunti mafiosi (presunti perché poi assolti in via definitiva peraltro) la magistratura ha sottratto la gestione delle aziende ai competenti organi sociali affidandola, per un anno, ad un gruppo di commissari già finiti al centro delle inchieste giornalistiche di un coraggioso cronista di frontiera, Pino Maniaci, che da tempo ne denuncia, inascoltato, l’opacità della gestione ed i rapporti obliqui con i propri danti causa, i magistrati appunto. E la Commissione antimafia che fa? Invece di porsi qualche lecito dubbio sulla natura e l’origine dell’iniziativa giudiziaria ne sposa acriticamente le tesi e convoca uno stuolo di manager a dare conto e ragione delle proprie responsabilità. Ma la vicenda assume contorni surreali quando, in assenza di un benchè minimo appiglio fattuale circa la presunta mafiosità delle aziende, l’oggetto delle audizioni diventano le buche di Roma, la sicurezza nei cantieri, l’organizzazione stessa d’impresa. Una strabiliante performance degna di un paese che annovera 60milioni di allenatori della nazionale calcistica. Peccato che qui si giochi con aziende strategiche per un’economia asfittica, tra le poche capaci di creare opportunità e posti di lavoro. In tutto questo la presidente Bindi si guadagna qualche lancio d’agenzia ed il “merito” di avere portato l’antimafia anche dentro le società quotate. Del resto un certo professionismo dell’antimafia si è sempre giovato di chi, personalizzando il ruolo politico, ne ha cantato le lodi senza se e senza ma. Con il risultato che i veri mafiosi continuano a tessere trame ed affari. E i protagonisti dell’antimafia a crogiolarsi della loro aurea di eroismo. E in questo mare malmostoso il politico rottamato sopravvive alla propria, contingente irrilevanza. Aspettando tempi migliori.