Le incongruenze del Rubygate
La Corte d’appello di Milano pronuncerà tra poche ore il verdetto sul caso Ruby. Ma ci sono le prove contro l’ex premier?
Le ragazze di Arcore non sono timorate di Dio, Karima el Mahroug non è la nipote di Hosni Mubarak e Silvio Berlusconi non si è mai spacciato per un santo tra mortali peccatori. Ciò detto, in una democrazia liberale dove regna lo Stato di diritto, una condanna a 7 anni di carcere dovrebbe reggersi su reati evidenti, non su peccati presunti. E dovrebbe essere l’esito di un iter processuale svoltosi nel sacro rispetto della legge e delle forme da essa prescritte.
Un parlamentare, per esempio, può essere sottoposto a intercettazioni e pedinamenti soltanto dopo l’autorizzazione della Camera d’appartenenza. Se l’utenza del parlamentare, come nel caso di Berlusconi, è intercettata 6.113 volte attraverso i contatti con altre utenze poste sotto controllo, come si fa a non leggervi un escamotage per metterlo sotto controllo bypassando gli obblighi autorizzativi? A sentire i difensori di Berlusconi, l’acquisizione dei tabulati di decine di ospiti frequentatori delle dimore dell’ex premier avrebbe determinato un «accerchiamento» sul suo spazio domiciliare, una «localizzazione permanente» in spregio della legge. Ora il sostituto procuratore generale Piero De Petris ha chiesto la conferma della condanna a 7 anni per concussione e prostituzione minorile. La sentenza è attesa per il 18 luglio, mentre la Cassazione avrà poi un anno circa per la pronuncia definitiva.
Una concussione senza concussi
Per l’accusa, la telefonata di Berlusconi alla Questura di Milano costituì «un abuso colossale», tale da configurare il reato di concussione per costrizione. In primo grado la pubblica accusa ipotizza la fattispecie più lieve, per induzione, ma i giudici aggravano il capo di imputazione. Secondo il pg, si rintraccerebbero gli elementi di una minaccia implicita e di una «prevaricazione costrittiva». Eppure il capo di gabinetto della questura Piero Ostuni ha sempre negato di aver subito pressioni spiegando di aver optato per l’affido soltanto dopo aver constatato l’assenza di posti in comunità. Ostuni ha parlato di «una conversazione gentile», una manifestazione d’interessamento che certo non lo lasciava indifferente ma che non era paragonabile a una costrizione da cui non hai scampo. Nella conversazione telefonica non si fa cenno a promesse o dazioni di qualsivoglia natura. C’è solo una richiesta di affido che è ritenuta solitamente la soluzione più consona rispetto all’ingresso in una comunità o all’ipotesi di trascorrere una notte in questura, tanto più se la minorenne in questione ha 17 anni e sette mesi.
L’agente Giorgia Iafrate, che nella notte del 27 maggio 2010 si occupò della sistemazione di Ruby, ha negato forzature. Alla domanda di Ilda Boccassini se avesse disatteso le disposizioni del pm Annamaria Fiorillo del Tribunale minorile, Iafrate ha risposto che il magistrato concesse che Karima fosse affidata alla consigliera Nicole Minetti «a condizione che prima fosse compiutamente identificata». Così avvenne. Secondo l’avvocato Filippo Dinacci, legale di Berlusconi, la richiesta di conferma della condanna di primo grado «è il frutto di un travisamento dei risultati processuali. Berlusconi non impartì alcun ordine e non richiamò in seguito il capo di gabinetto».
L’unica prostituta minorile a Milano
Il processo Ruby è l’unico procedimento aperto a Milano per prostituzione minorile. Le periferie della città sono affollate da giovanissime prostitute, molte vittime del racket e della coercizione, ma l’attenzione della procura si appunta soltanto sul perimetro della villa di Arcore. Dove evidentemente nulla accadeva contro la volontà degli ospiti.
Sia la «minore adultizzata» (espressione usata dai giudici) sia l’ex premier negano qualunque rapporto sessuale, e non esistono prove che l’attestino con certezza. L’unica teste che asserisce di averlo «visto», la brasiliana Michelle Conceiçao, è stata dichiarata «inattendibile» dalla stessa procura sulla base dei suoi tabulati telefonici.
Pur ammettendo che il fatidico rapporto sessuale si sia consumato in barba al comune senso del pudore, i pm Antonio Sangermano e Boccassini non sono riusciti a dimostrare che l’imputato fosse consapevole della minore età di Ruby. Nelle udienze è emerso più volte che Karima era solita falsificare la sua identità millantando una parentela con l’ex rais egiziano e un’età di 24 anni: è attestato persino in un verbale dei carabinieri.
Karima, vittima per forza
La presunta vittima non si è costituita parte civile né chiede risarcimenti. Al contrario lancia accuse contro gli inquirenti: «La procura mi ha usato» grida dai gradini del tribunale in un’improvvisata conferenza stampa. C’è da crederle? La psicologa che la segue già nel 2008 le attribuisce «una marcata tendenza alla fantasticheria autistica». Il soggetto non sembra affidabile in alcun senso. Quel che colpisce è che la pubblica accusa rinunci a interrogarla in aula. Il 4 aprile 2013, però, Karima ha ammesso pubblicamente di aver ideato la falsa parentela con Mubarak «per sentirmi quello che non ero».
Berlusconi e altri hanno testimoniato di avere sottoposto la questione direttamente all’ex rais durante un pranzo ufficiale a Roma, appena 10 giorni prima del fermo della ragazza: era il 19 maggio 2010. Il 5 giugno, una settimana dopo il fermo, Karima finisce in ospedale ed è affidata a una comunità di Genova. I telefoni del centro sono messi sotto controllo ma non c’è traccia d’intervento da parte dell’ex premier. Il quale spiega che, dopo aver compreso di essere stato ingannato dalla ragazza sulla sua età, interrompe ogni contatto. La versione potrà convincere o no, ma in un Paese civile si condanna soltanto se la colpevolezza è provata «oltre ogni ragionevole dubbio». E qui i dubbi sono parecchi.
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