L'eredità mafiosa di Bernardo Provenzano
La mafia prima e dopo il Capo dei Capi, spirato oggi a 83 anni: parla Giuseppe Marino, professore dell'Università di Palermo
L'11 aprile 2006 Bernardo Provenzano (morto oggi a 83 anni) fu arrestato - dopo mesi di appostamenti davanti alle case dei familiari e approfondite indagini e interecettazioni - da un gruppo di poliziotti della Squadra mobile di Palermo e della Sco che posero fine alla sua ultradecennale latitanza. Si trovava in un casolare a pochi chilometri dal suo paese natale, Corleone, dove continuarono a vivere indisturbate per decenni pressoché tutte le persone a lui più care, dove godeva di vaste protezioni ambientali.
Fu un clamoroso successo, ottenuto nonostante i depistaggi, del quale parlò a lungo con Panorama.it, Giuseppe Carlo Marino, professore ordinario dell'Università di Palermo, grande esperto di mafia siciliana. Fu, quella dell'arresto del capo dei capi, l'occasione per parlare del ruolo di Provenzano e del futuro di Cosa Nostra dopo l'ascesa dei villani di Riina e la fine della vecchia mafia agraria dei gabbeloti. Un'intervista che è ancora oggi attuale per capire il ruolo che ha giocato Provenzano nella storia dell'organizzazione criminale.
Giuseppe Carlo Marino, professore ordinario dell'Università di Palermo, è forse il più autorevole «mafiologo» italiano. Ha scritto due bestseller, Storia della Mafia e I padrini (Newton & Compton), che ricostruiscono la storia della cultura mafiosa in Sicilia sulla base di un poderoso lavoro di ricerca documentale. Panorama.it lo ha intervistato a proposito dell'arresto del superboss di Corleone.
Professore, che tipo di capo mafia era Bernardo Provenzano?
Provenzano era un uomo della «nuova mafia», quella che ha rotto i ponti con la tradizione agraria dei gabelloti. Veniva dal gruppo della primula rossa di Luciano Liggio. A differenza degli efferati corleonesi di Totò Riina, che a un certo punto hanno voluto trattare lo Stato da pari a pari, aveva però capito una cosa: che per sopravvivere, bisognava ritornare ai vecchi metodi padrinali dei Vito Cascio Ferro e dei don Calogero Vizzini. A un rapporto di complicità e non di contrapposizione con la «società civile». A un accordo sotto traccia con le istituzioni, a metodi più «concertativi». Insomma, dopo le iniziative scriteriate di Riina degli anni '90, Provenzano ha saputo ricollegarsi con una cultura di massa profondamente radicata in certe zone della Sicilia.
Era davvero il «capo dei capi»?
Non voglio sottovalutare l'importanza del suo arresto. Siamo tutti grati alla magistratura e alle forze di polizia per quello che è accaduto. Semmai mi chiedo: dove lo hanno arrestato? A due chilometri da casa, in un cascinale, mentre mangiava un piatto di verdure con un vasetto di miele sul tavolo. La sua base insomma non era una grotta afgana, bensì la sua città, Corleone. Il luogo più naturale dove potevano trovarlo. Andava persino in Francia a farsi curare. La domanda che mi pongo è semplice: quali vantaggi offriva Provenzano al sistema che lo ha protetto per quarant'anni? E perché i suoi servigi a un certo punto non sono più stati ritenuti utili?
Sta dicendo che i nuovi boss hanno deciso di scaricarlo
Esattamente, non era più funzionale. Voglio ricordare che la mafia ha sempre reso dei servizi. Si pensi solo al ruolo di Lucky Luciano nelle operazioni di sbarco in Sicilia nel '43. Il Congresso degli Usa voleva addirittura dargli una medaglia. Si ricorda quello che è accaduto al bandito Salvatore Giuliano? Quando non servì più lo consegnarono. La stessa cosa potrebbe essere accaduta a Provenzano.
Quali prospettive si aprono ora e chi sono i suoi eredi?
Guardi, se le forze dell'ordine individuano altri due supercriminali come Matteo Messina Denaro e Salvatore Lo Piccolo fanno un errore. Sarebbero solo specchietti per le allodole.
Sta dicendo che sono solo delinquenti miliardari e di lusso che fanno il loro lavoro per «conto terzi»?
La verità è che si sta formando una nuova mafia internazionale che non ha più bisogno di personaggi coloriti come i Riina e i Provenzano, con la seconda elementare in tasca. E' una società criminale nuova, più simile alla massoneria, che deve muovere capitali ingenti da un paese all'altro e si deve dare un volto presentabile per affrontare la globalizzazione.
C'è ancora la Cosa Nostra descritta da Tommaso Buscetta?
La vecchia Cosa Nostra aveva bisogno di un capo assoluto e di una gerarchia molto rigida. Il nuovo sistema ha bisogno semmai di un'oligarchia che deve muoversi su scala internazionale. Certo: continueranno a dare in subappalto il lavoro sporco ad alcuni manovali di lusso del crimine come Denaro e forse lo stesso Provenzano, o come i boss della mafia albanese, turca, colombiana. Ma i piani vanno tenuti distinti: quelli che contano veramente sono persone insospettabili e anche piacevoli, con cui tutti noi usciremmo volentieri a cena.
I clan e la «sicilitudine»: il legame storico reggerà ancora ancora con questa nuova mafia internazionale dei colletti bianchi?
A un livello basso, probabilmente sì. Ma - le ripeto - ormai stiamo parlando di una grande industria criminale, con un suo managment, con i suoi tecnici, con i suoi dirigenti. Il legame storico con la cultura siciliana derivava soprattutto dal mondo agrario dei gabelloti e dei proprietari terrieri. Un mondo che è ormai al tramonto. Questo, i mafiosi lo hanno capito bene. Lo deve capire anche lo Stato.
Qual è attualmente il business principale di questa nuova mafia?
Il controllo del mondo delle imprese e del commercio, attraverso il pizzo, è ancora molto forte. Lei si ricorderà la tassa Riina che veniva imposta agli imprenditori che volevano ottenere gli appalti. Ecco, specie nell'edilizia, è quello oggi il settore a più alta redditività mafiosa. Probabilmente è in calo l'interesse per il mercato della droga. Mentre sta diventano centrale il controllo sui flussi internazionali di capitale.