Giornata mondiale insegnante
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L’insegnamento deve riprendersi la scuola

La “giornata mondiale dell’insegnante” certifica ogni anno che la professione docente ha bisogno di cure speciali e di attenzioni che una celebrazione dedicata non può assicurare, perché l’affetto di facciata non basta più, anzi serve proprio un cambio di prospettiva

Il cinque ottobre ricorre la giornata mondiale dell’insegnante e, per fare un regalo alla categoria, non si parlerà qui di precari, reclutamento, stipendi, ministri, acronimi e riforme. Allo stesso modo, sarà opportuno sorvolare sulle parole al miele che si sentiranno dappertutto sugli insegnanti rimasti nel cuore, sul primato della scuola, sulla necessità di riforme alla luce di nuovi dati allarmanti, sull’adeguamento salariale guardando agli standard europei. Si tratta di parole a orologeria, buone oggi e di cui non rimarrà traccia fino alla prossimaoccasione buona per lucidare la superficie scolastica.

Sia questa invece l’occasione per parlare di scuolae di insegnamento nel senso più alto del termine.

Bisogna cominciare a pensare in grande e non sempre al ribasso, coltivando l’ambizione di considerare la scuola come vero e proprio lusso di un quartiere, un luogo pubblico che sia molto più di ciò per cui è deputato oggi - l’insegnamento mattutino e la funzione di seggio elettorale alla bisogna - facendosi largo come luogo di attrazione culturale adatto allo studio pomeridiano e apresentazioni di libri senza finalità economicistiche e di mercato, un sito aperto al territorio che porti ai cittadini le rappresentazioni teatrali studentesche e tutte quelle iniziative che abbiano al centro la ricerca dei docenti e l’entusiasmo degli studenti.

La scuola è sempre meno proposta come presidio culturale territoriale, eppure basta guardare ai tanti borghi italiani in crisi demografica per rendersi conto che dove chiude una scuola, muore il paese. Certo, per dare centralità territoriale alla scuola non basta dirlo: servono investimenti per adeguare ambienti e orari di lavoro, coraggio progettuale e una visione alta di scuola come avamposto culturale che sia punto di incontro tra libri e cittadini, siano essi genitori – che una corrente di pensiero invece vuole fuori dalle scuole - ex alunni, pensionati, studenti.

La scuola invece, nel grande come nel piccolo,sembra andare dalla parte opposta, tanto che ormai anche al suo internofatica a discutere di cultura, di saperi e di impegno che porta alla scoperta e che entusiasma: non c’è un dipartimento di lettere che approfondisca un autore del Novecento, per fare un esempio, favorendo un naturale scambio tra colleghi, perché i docenti sono ripiegati a compilare moduli e fogli Excel da così tanto tempo che ormai hanno interiorizzato che il loro mestierenon sia fare altro di diverso, fino a pensare che la scuola sia ormai questo: compilare, schedare, ingrigliare, sbuffare, firmare, archiviare.

Invece non è così e non può ridursi così, perché fare scuola è leggere e poi discuterne, riflettere, condividere modi per insegnare questo e quello, provare e riprovare, consigliare libri, articoli, saggi, metodi. E poi tentare, confrontarsi, ritentare. E anche ricercare, avendo il tempo necessario per riflettere senza doverlo conteggiare con il cronometro, senza dover rendere conto del tempo impiegato per studiare. Per studiare, proprio così.

Se è la giornata dell’insegnante, si sostenga con coraggio che la scuola funziona a una condizione che è la presenza in cattedra insegnanti capaci di appassionare, motivare, istruire, accogliere e guidare le classi, le studentesse e gli studenti di cui sono docenti.

Parafrasando una nota canzone di Francesco De Gregori, “la scuola siamo noi, nessuno si senta offeso”. Non si sentano offesi i ministri, i provveditori, i pedagogisti, i dirigenti: la scuola è fatta da chi sta in cattedra e da ciò che in cattedra èe fa, da quel che sa, da come lo porta in classe, per come spiega, per come valuta, per la sua puntualità, per la cura che accorda alla relazione, per lo sguardo sugli studenti. Certo, quel “noi” non è esclusivo, anzi vuole includere, perché la scuola è fatta da docenti, alunni, genitori e da tutti coloro che concorrono all’impresa educativa, ma gli insegnanti ne sono il cuore pulsante, al netto del ruolo sociale a cui sono relegati, nonostante stipendi incredibilmente bassitanto da portarequalcuno a scegliere di dedicarsi ad altro.

E ancora, “la scuola siamo noi, nessuno si senta escluso”. Non si sentano esclusi i (tanti) precari, ad esempio, spesso traghettatori di sezioni che dovranno lasciare nel medio o nel breve termine. La scuola dipende dal loro lavoro e dalla loro cura che deve alimentarsi deisaperiche portano in classe e della responsabilità verso le generazioni a cui si rivolgono, perché cercare stimoli e motivazioni altrove, ad esempio nel desiderio di stabilizzarsi prima possibile, porta a rassegnarsi e, per qualcuno, a perdere entusiasmo, desiderio, smalto. Non si sentano esclusi i docenti di sostegno, per motivi analoghi, e non si sentano esclusi i docenti di scienze motorie, di religione, di arte, ovvero coloro che nella quotidianità scolastica,nella lotta tra poveri in sala docenti, fanno la fine dei capponi di Renzo.Non si sentano esclusi i giovani perché comprensibilmente inesperti, non si sentano esclusi i prossimi alla pensione perché comprensibilmente stanchi.

L’insegnamento torni protagonista nelle aule scolastiche per garantire qualità della trasmissione culturale. Non bisogna aspettarsi miracoli dall’alto, tocca invece ricominciare dal basso, dal proprio perimetro d’azione: percorsi che insegnino a scrivere davvero, libri di lettura uno dopo l’altro, lezioni brillanti preparate con la cura di cui necessita latrasmissione di un testimone prezioso, e così via, e così sia. O sarà un’agonia culturale, educativa e civile.

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Marcello Bramati