L'Isis e gli affari sporchi della famiglia Erdogan
L'atto di accusa contro il presidente turco segna un passaggio chiave nella guerra in corso: ecco perché
"Non dimenticheremo l'abbattimento del jet russo: i turchi se ne pentiranno". Tutto si può dire di Vladimir Putin salvo che non annunci con un qualche anticipo quello che intende fare. Recentemente il leader russo ha pronunciato due storici discorsi, il 16 novembre a Antalya (Turchia) durante il G20 e il 2° dicembre a Mosca, che hanno consentito alla Russia di acquisire un grande credito presso l'opinione pubblica europea.
Il motivo è semplice: mai nessun capo di Stato si era spinto a sostenere con tanta chiarezza, come ha fatto Putin al G20, che "l’Isis è finanziato da individui di 40 Paesi, inclusi alcuni membri del G20", tra cui Arabia Saudita, Qatar e Kuwait, storici alleati dell'Occidente in Medioriente. E mai nessun capo di Stato era stato così esplicito nel denunciare, come è avvenuto ieri al Cremlino, il doppio gioco di Ankara in Siria, da un lato alleata della Nato e della coalizione anti-Isis, dall'altro (presunto) partner commerciale occulto dello Stato islamico nel contrabbando di petrolio rivenduto a prezzo ribassato in Turchia.
Popolarità alle stelle
Un j'accuse, quello pronunciato dal ministro della Difesa di Putin, sostanziato da alcune prove ritenute "irrefutabili" come le immagini satellitari fornite dall'intelligence russa che mostrano centinaia di automezzi impegnati a caricare petrolio presso installazioni controllate dall’Isis per poi attraversare senza alcun controllo il confine verso la Turchia.
Un j'accuse che non ha risparmiato nemmeno la famiglia di Tayip Erdogan, che Putin - dopo l'abbattimento del jet russo lungo il confine siro-turco - ha accusato senza mezzi termini di essere socio d'affari del gruppo di Al Baghdadi.
Due bombe mediatiche - nel bel mezzo di una guerra in Siria e in Iraq - che sono anche verità scomode per l'Occidente e per la Nato. La conseguenza di questi due discorsi giustamente definiti storici è che il credito di Putin, dopo aver raggiunto vette di popolarità impensabili in patria, ha raggiunto livelli fino a ieri impensabili anche all'estero, anche presso la titubante opinione pubblica europea. Il fatto che, come emerso dai rapporti ufficiali dello stesso ministero della Difesa russo, l'80% degli obiettivi militari colpiti dai russi in Siria non siano le postazioni dell'Isis non conta sul piano della battaglia di propaganda che stanno combattendo russi e americani. Come non conta il fatto che in Cecenia, dove governa il suo amico e businessman Kadyrov, sia stata instaurata una sharia di cui nessuno parla solo perché è saldamente filorussa. Quello che conta, per vincere la battaglia ideologica in corso, è chi ha raccontato la verità. E quel qualcuno è stato - al G20 come a Mosca - Vladimir Putin.
Americani sulla difensiva
In realtà le relazioni pericolose tra il governo di Ankara e l'Isis erano emerse da mesi, non solo sulla stampa specializzata, ma anche nei circuiti di opposizione curdi. Nell’ottobre 2014 fu il vice-presidente americano, Joe Biden, a sostenere durante un raduno ad Harvard che il regime di Erdogan stava sostenendo l’isis con "centinaia di milioni di dollari e migliaia di tonnellate di armi…".
Un atto di accusa, quello di Biden, che allora fece scalpore ma al quale seguì pochi giorni dopo un imbarazzante retromarcia americana dettata da mere ragioni tattiche: per poter usare la base aerea turca di Incirlik al fine di attaccare l’Isis in Siria, gli americani hanno bisogno della Turchia, cui hanno subito offerto un peloso sostegno diplomatico dopo le accuse di Mosca, che l'amministrazione Usa ha definito "assurde".
Colpo all'immagine americana
Insomma: sul piano dell'immagine internazionale, la Russia di Putin - che conta in Siria una delle sue ultime due basi militari sparse per il mondo dopo il crollo dell'impero sovietico - ha messo a segno due vittorie non irrilevanti per decidere le sorti del dopo-Assad, mentre gli americani - costretti ad alleanze contraddittorie e pericolose coi Paesi del Golfo e con la Turchia - sono costretti a giocare in difesa, impossibilitati come sono a ribattere a Mosca con una contronarrazione altrettanto efficace e realistica. Non sono fattori questi, irrilevanti, per determinare il proseguio delle operazioni belliche e della partita diplomatica che si aprirà a breve a Damasco, qualora Assad decidesse davvero di fare un passo indietro.
Gli affari sporchi della famiglia
Ma quali sono, se ci sono, le responsabilità di Tayip Erdogan? È vero che BMZ Ltd., l’impresa marittima del figlio Bilal che è finanziata anche con fondi pubblici e prestiti illeciti ricevuti da banche turche, ha stretto rapporti commerciali con l'Isis al fine di contrabbandare (al di fuori di qualsiasi controllo frontaliero) il petrolio estratto dalle raffinerie controllate dallo Stato islamico in Iraq e in Siria?
È vero o non è vero che le aziende di Bilal Erdogan hanno contatti nei porti di Beirut e Ceyhan, dalle cui banchine di scarico vengono trasferiti i barili sporchi in petroliere che possono anche andare fino al Giappone? È vero o non è vero - come emerso da numerose testimonianze di lavoratori e infermieri - che la figlia del presidente turco, Sümeyye Erdogan, gestisce un centro medico appena oltre la frontiera con la Siria dal quale i camion dell’esercito turco fanno avanti e indietro ogni giorno per soccorrere i ribelli islamisti feriti? Perché Erdogan ha consentito per mesi ai foreign fighters europei e mediorientali di raggiungere la Siria mentre ha impedito ai ribelli curdi di raggiungere i loro fratelli oltre confine in Siria attaccati dai miliziani dell'Isis?
Le ragioni geopolitiche del doppio gioco
Erdogan - che già alcuni deputati dell'opposizione kemalista e curda avevano in passato accusato di doppiogiochismo - ha risposto indignato che, qualora queste accuse della Russia fossero dimostrate, ne prenderebbe atto e sarebbe disposto a fare un passo indietro. Pare acclarato, comunque, che la Turchia abbia davvero giocato su più tavoli in nome di un principio di realpolitik che poi è quello che ha ispirato la scellerata azione di finanziamento a pioggia, dopo lo scoppio della primavera araba, di tutti i gruppi che combattevano Assad da parte dell'amministrazione Obama. La Turchia, anche per impedire la nascita di un grande Kurdistan, ha scientemente per mesi finanziato il caos in Siria perché è pur sempre meglio avere alle porte uno Stato fallito e debole che uno Stato forte e armato fino ai denti come era la Siria di Assad. I risultati li abbiamo sotto gli occhi.