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AHMAD GHARABLI/AFP/Getty Images
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Ambasciata Usa a Gerusalemme: e se Trump avesse ragione?

Finora la teoria dei due popoli-due stati non ha certo portato alla pace. E il rischio di nuovo terrore non è cosa nuova per gli israeliani

Ammettiamolo. Donald Trump fa le cose che pochi hanno il coraggio di dire che andrebbero fatte. E le fa perché è pragmatico e se ne infischia del politicamente corretto. Che poi siano le cose giuste da fare è da vedere, e qui si possono avere idee diverse.

Fa pensare che contro la sua decisione di spostare l’Ambasciata degli Stati Uniti a Gerusalemme (riconoscendola implicitamente come capitale unica dello Stato ebraico e sconfessando la teoria dei due popoli due Stati fulcro finora dei tentativi negoziali israelo-palestinese) si siano espressi non Paesi che da sempre amano prendere le distanze dagli USA (a partire, in Europa, dalla Francia), ma anche alleati vicinissimi a Israele come la Germania. Fa pensare che tanti opinion leader israeliani abbiano reagito nel solco della battuta del bastian contrario Etgar Keret (“Questo dono non lo voglio, Trump ce lo risparmi”).

La realtà è che molti leader e Paesi che ufficialmente si dicono preoccupati sanno perfettamente che prima o poi ci si doveva arrivare. Non sembra che la teoria dei due popoli-due Stati abbia finora portato la pace. Non sembra che quando i leader palestinesi hanno avuto la possibilità di chiudere un accordo onorevole abbiano accettato le condizioni (vedi il gran rifiuto di Arafat). Non sembra, poi, che il mondo intero ignori che Gerusalemme sia come è, da sempre, la capitale designata da Israele.

I leader del pianeta se devono andare in visita in Israele bussano alla Knesset, il Parlamento, che a Gerusalemme si trova, insieme a tutte le grandi istituzioni governative. E ancora. C’è da chiedersi se vada nel senso della pace e dell’integrazione una città divisa tra Est e Ovest, con un muro in mezzo come nella Berlino della Guerra Fredda, piuttosto che una capitale aperta che sia tanto degli ebrei quanto dei palestinesi.

La Storia procede attraverso decisioni controcorrente di leader che fanno scelte stupefacenti, osteggiate da grigi campioni del politicamente corretto. Leader che interpretano la pancia popolare. Trump declina in modo forse istintivo (forse no) ma comunque coerente la sua politica “America first”, esce dagli organismi internazionali abbandonandoli alla loro inefficacia sostanziale e agli acrobatismi diplomatici per mantenere lo status quo (e pagare i propri stipendi). E scatta in avanti.

Lo fa per egoismo, eccesso di nazionalismo, tatticismo politico, per distrarre l’opinione pubblica dai guai del Russiagate e dai venti di Impeachment? Ma lo fa. E solo la Storia, solo il tempo, ci dirà se alla fine questa scelta non aspettasse proprio un leader sia pure improbabile per essere finalmente compiuta.

I rischi ci sono, ma il terrore non è mai stato risparmiato agli israeliani nei momenti critici della loro storia. Israele, baluardo dell’Occidente e della democrazia in Medio Oriente, ha sempre dovuto confidare nella propria forza per sopravvivere. E la decisione di Trump corrisponde a una scelta sovrana del Congresso americano addirittura nel lontano 1995, ai tempi di Bill Clinton, e al di là delle interviste agli scrittori, gli israeliani pregano perché Gerusalemme sia consacrata per quella che è già da decenni: la capitale dello Stato ebraico.

La capitale dell’unico Paese democratico di quell’area devastata da guerre, dittature, integralismi. 


(Articolo del 6 dicembre 2017, ripubblicato il 14 maggio 2018)


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Marco Ventura

Inviato di guerra e cronista parlamentare de Il Giornale, poi  collaboratore de La Stampa, Epoca, Il Secolo XIX, Radio Radicale, Mediaset e La7, responsabile di uffici stampa istituzionali e autore di  una decina fra saggi e romanzi. L’ultimo  "Hina, questa è la mia vita".  Da "Il Campione e il Bandito" è stata tratta la miniserie con Beppe Fiorello per la Rai vincitrice dell’Oscar Tv 2010 per la migliore  fiction televisiva. Ora è autore di "Virus", trasmissione di Rai 2

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