Medicina e salute: alta pressione
Secondo le nuove linee guida la pressione perfetta è 75/115, al di sopra è ipertensione. Ecco come proteggerci
"Ma si può avere a 120?". Con serafica ostinazione, la signora anziana che si sta facendo misurare la pressione in una farmacia semi-centrale di Milano chiede di meglio, come se lo potesse acquistare al momento: 80-140 a lei non va bene. Guardi che non è male però, obietta il farmacista. «Eh, ma la mia amica che è vecchia quanto me ce l’ha più bassa, a 130. Me lo dice per farmi invidia, lo so benissimo. Me la può misurare di nuovo?».
Il consiglio di non fissarsi troppo, di andare dal medico perché lo saprà lui se è giusta o no, persino il sospetto buttato lì che l’amica non la racconti giusta, e soprattutto di non tornare di nuovo in farmacia per lo stesso motivo (non dev’essere la prima volta), non sortiscono effetto. La signora, sugli 80 anni, è chiaramente delusa. Quei 140, così poco brillanti, non le piacciono neanche un po’.
Il dubbio, a dir la verità, viene anche a noi. Al di là della vanità senile da prestazione, 140 di pressione massima sono ok? O dovrebbero essere meno? Magari 70-130? Ancora più bassi? Quando diventiamo «malati», pensando di essere sani? E, soprattutto, chi lo decide?
Le nuove linee guida americane sulla pressione aggiungono, se possibile, un filo di apprensione. Valori che, fin all’altro ieri, erano considerati tutto sommato accettabili, 80 la minima e 130 la massima (si parlava tutt’al più di pre-ipertensione), improvvisamente non lo sono più, fino a scivolare nella definizione di «ipertensione di grado 1» se salgono e sfiorano i 89-139. Lo stadio due è quando si oltrepassano i 90-140. Applicando tutto ciò alla popolazione generale, il numero di ipertesi o in procinto di esserlo quasi raddoppierebbe.
Stiamo esagerando? C’è dietro la solita Big Pharma che vuole vendere farmaci a tutti? Non è proprio così. Le nuove regole dicono che la pressione non deve allontanarsi troppo da 80-120, ma l’indicazione non è abbatterla subito con i farmaci bensì di intervenire in altro modo. Camminare (molto) di più, diminuire il sale e l’alcol, rivedere in generale la propria alimentazione, buttare via le sigarette. Ridurre lo stress (come se fosse possibile, ma intanto lo dicono). Sono d’aiuto anche lo yoga e ascoltare musica. E il più classico dei «pisolini» dopo pranzo, assicurano all’American College of Cardiology, ne abbassa i valori. Nei mesi successivi, poi, tenerla d’occhio per vedere se scende. Molto spesso, lo fa. Soprattutto se, vincendo la pigrizia, introduciamo mezz’ora di passeggiata nella nostra routine quotidiana.
L’esperimento più recente in tal senso (pubblicato un mese fa su Hypertension) viene da medici dell’Università australiana di Perth, condotto su 35 donne e 32 uomini tra i 55 e gli 80 anni. Volendo sintetizzare i risultati: mezz’ora di camminata o tapis roulant la mattina con brevi pause di attività fisica durante il giorno hanno ridotto, in tutti e in modo significativo, i valori della pressione, sia la minima sia la massima. «L’obiettivo di questa nuova classificazione non è quello di dare subito i farmaci, destinati ai pazienti ad alto rischio, ma intervenire in modo più precoce» chiarisce Bruno Trimarco, direttore del dipartimento di Cardiologia all’Università Federico II Napoli. «Se riduco la pressione a un paziente che ha già un danno al cuore, ai reni o al cervello, tutti organi danneggiati dalla pressione elevata, il suo profilo di rischio certo scende, ma resta comunque più alto che se si fosse intervenuti in una fase precedente».
Il messaggio, insomma, è fare qualcosa prima che sia tardi; abbassare la soglia dell’ipertensione, è il ragionamento, aumenta la consapevolezza del rischio potenziale e quindi la possibilità di prevenire guai futuri. «Il balletto di cifre rispetto al passato si muove nell’ottica di una maggiore prevenzione, tenendo anche conto del fatto che i medici spesso si accontentano di mantenere la pressione dei loro pazienti così com’è, se non è troppo alta, invece di provare a farla scendere» aggiunge Trimarco.
In questa revisione salutista, addio per sempre all’idea che in fondo è normale, quasi fisiologico, che la pressione aumenti con l’età. Una volta, per calcolarla a spanne, si diceva «100 +l’età». Neanche per sogno. Se abbiamo 50 o 60 anni, non è che la pressione può avvicinarsi impunemente a quel valore. «Fisiologico nel senso di frequente, non certo di benigno» precisa Trimarco. «Negli anziani ridurre la pressione abbassa il pericolo di infarto e ictus». E anche di demenza.
Ecco, questo è assai interessante. Lo scorso 28 febbraio, su Alzheimer Research and Therapy, ricercatori americani hanno pubblicato una studio che indica come un farmaco utilizzato per la pressione alta, il candersartan (fa parte del gruppo dei sartani) ha mostrato, per ora in prove di laboratorio, efficacia prottettiva contro l’Alzheimer. Per la precisione, ha impedito l’infiammazione dei neuroni e altri danni patologici che, a cascata, portano allo sviluppo della malattia.
Presto per dire se questo tipo di farmaci sarà davvero un’arma contro le devastazioni dell’Alzheimer, certo è la conferma ciò che gli scienziati sospettano da tempo: che l’ipertensione sia un importante fattore di rischio per questa patologia. «In Italia, dove seguiamo le linee guida europee, la nostra definizione di ipertensione rimane la stessa. Gli americani sono più aggressivi di noi, considerano come “normali” livelli molto più bassi» dice Claudio Ferri, presidente della Società italiana di ipertensione arteriosa. «Ma non c’è dubbio che sopra i 90-140 sia il primo gradino della patologia. Se non ci sono altri fattori di rischio, per esempio età, colesterolo alto, diabete, si cambia stile di vita e si vede che succede. Altrimenti conviene iniziare con i farmaci».
E sui farmaci, c’è scelta abbondante: diuretici, ace-inibitori, sartani, betabloccanti, calcioantagonisti. In genere si inizia la terapia con una monopillola che contiene due/tre principi attivi (sarà lo specialista a decidere la combinazione più indicata). «Buona norma iniziare cautamente, e soprattutto accertarsi che i pazienti seguano davvero la terapia prescritta». Sarà mica difficile, una pillola al giorno... «Guardi che i dati Osmed sull’aderenza dei pazienti ipertesi alla terapia sono un disastro. Su dieci giorni che devono prendere i farmaci, ne prendono per 6-7. In 30 anni che faccio il clinico, ho raccolto un’ampia aneddotica: tu gli dai da prendere una pastiglia e la spaccano in otto, oppure la prendono a giorni alterni».
Dopo anni di terapia, se la pressione è tornata bassa (e ci comportiamo bene) potremo magari liberarci dei farmaci? A Ferri quasi scappa da ridere: «Certo, se tutti diventassimo virtuosi, non stressati, sportivi e rigorosi nel mangiare, può darsi. Ma sa quanti ne ho visti di pazienti così? L’uno per cento. Lei se lo ricorda l’esperimento americano di Biosfera?». Vagamente. Ma che c’entra? Biosfera, racconta Ferri, era una cupola autosufficiente costruita molti anni fa in Arizona, e poi affittata a varie università americane.
Il primo esperimento fu quello del chimico Roy Walford, un maniaco della restrizione calorica e dello stile ipersalutista. Con un manipolo di pazzi si chiuse nella biosfera per due anni. Quando uscirono, erano ovviamente tutti magri, vegetariani, ipotesi. Durò pochissimo. Tornarono quasi subito a mangiare cheeseburger. E la loro pressione tornò ad arrampicarsi. A parte quella che ha una base genetica oppure organica, l’ipertensione dipende in gran parte da come mangiamo e viviamo. «Gli orientali, che usano poco sale, non sono ipertesi. Ma lo diventano quando vanno a vivere in paesi occidentali e cambiano alimentazione» dice Trimarco. «In natura non esistono mammiferi ipertesi» concorda Ferri. «Non troverà mai un cane con la pressione alta, per esempio. Anzi no, a pensarci. Cani e gatti sovrappeso e ipertesi, con il diabete e il colesterolo alto, in realtà ce ne sono: quelli che vivono con noi. Gli passiamo il nostro stile di vita. E le nostre malattie».
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