Migranti a Ventimiglia
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Mentone-Taranto: il folle viaggio (di Stato) dei migranti

1100 km, 17 ore di viaggio, 50 agenti impiegati. Così lo Stato trasferisce i migranti respinti dalla Francia

Ha vinto la Francia che chiude i valichi e ha perso l’Italia che apre i porti.

«Siamo diventati i fattorini dei francesi» mi dice a Ventimiglia, di fronte al commissariato di polizia di via Aprosio, Valentino, un agente “aggregato”, e dunque di servizio a Genova, che qui è stato chiamato non più per inseguire i birbanti frontalieri, ma per riprendersi i migranti “scartati” dalla Francia. «E però, non pensare che io sia l’unico e il più disadattato. Ci sono pure agenti chiamati da Milano. A Ventimiglia tutti sono d’altrove. Anche la polizia qui è un po’ nomade».

Da due mesi, i migranti che la Francia ci riconsegna alla frontiera di Mentone, dall’Italia, vengono presi in custodia e trasportati a Taranto. Da due mesi, una carovana di uomini, rifiutati dalla gendarmeria francese e scacciati come bestie e accattoni, molte volte senza scarpe, viene caricata per disposizione del governo italiano su un bus di 49 posti che parte dal commissariato di Ventimiglia e arriva al varco Nord del porto di Taranto. I chilometri sono 1097, il viaggio dura 17 ore, le soste sono cinque, i mezzi che lo scortano sono 3, gli agenti mobilitati sono in totale 46, e c’è perfino un “artificiere”. «Ma credimi su quel bus nessuno ha mai perso la testa. Non so cosa dice Maometto, ma a volte l’autogrill può apparire più invitante delle 72 vergini del Corano» mi confida ancora una volta Valentino che però oggi non parte, «stavolta sono io che mi fermo alla frontiera».

A Ventimiglia esiste davvero un uomo che – e neppure la fantasia di George Simenon fece in tempo a raccontare – guarda passare gli autobus. È il proprietario del Bar Bligny, caffè forte e vita tanta, che gli agenti di polizia li riconosce dalle schiene e forse anche per numero di matricola. «Questa settimana i viaggi sono stati quattro. E c’è stato un tempo, e non è tanto tempo, in cui i bus partivano anche ogni giorno. Non bastava uno ma ne occorrevano due». Accadde un anno fa. E qui li ricordano ancora come “i cento giorni di Ventimiglia”, sono storici come quelli di Napoleone all’isola d’Elba. Per non farli ripetere, il Ministero degli Interni non si è affidato alla diplomazia europea ma alla Riviera Trasporti, una società che gestisce i collegamenti della provincia d’Imperia, 239 autobus e 19 filobus, che si è aggiudicata il bando di questi specialissimi viaggi.

La tariffa che la Riviera Trasporti ha applicato è di 2 euro e 25 centesimi a km, e si esclude l’iva. «Nessuno ha speculato» mi avvisa un dipendente della stessa società che vuole rimanere anonimo ma che tuttavia ne riconosce i benefici. Quanto vi rende? «Io non uso queste parole. Certo, so fare a mente la moltiplicazione che voi avete già fatto. Il viaggio intero costa 5500 euro circa. Ma guardi che nessuno, neppure gli autisti, e per favore li guardi, vorrebbero accompagnare questi ragazzi giù per l’Italia. Mi sento di dire che se fosse per loro li condurrebbero in Francia, perfino in Svezia».

La Partenza da Ventimiglia

E infatti non solo li guardo ma, alle sette di mattina, quando vedo fermarsi il bus di colore grigio, di fronte alla caserma, provo a parlarci. Il conducente è un uomo sui cinquant’anni, i capelli lunghi e tutti bianchi. È cortese ma mi avverte che non parla, mi sorride quando gli dico che insieme a un fotografo voglio seguirlo fino a Taranto. «Pensi di farcela?». Ci provo, gli rispondo. E allora, forse temendo di vedermi in coda in autostrada, mi dice che le soste cambiano a ogni viaggio e che solo la polizia le conosce e neppure lui le può prevedere. «Sono i funzionari che mi indicano dove fermarmi. E di solito sono caserme della polizia stradale. E tu in caserma non puoi entrarci». E io gli rispondo che è vero, ma che fuori posso rimanerci.

E proprio da fuori guardo il bus ancora vuoto ma con i sedili tutti imbustati con plastica bianca, osservo la carena con le tante stelle che, per scherzo del destino, rimandano alle frontiere aperte, all’Europa buona e mescolata. E devo essermi avvicinato cosi tanto che un funzionario della polizia senza divisa ma con i guanti mi chiede subito il tesserino da giornalista. «Tanto lo so che sei un giornalista» mi dice interrompendomi subito ma con garbo. «Vi riconosco da come guardate, per quello che cercate». Cosa cerchiamo? «Chiedete sempre i numeri. “Quanti sono?”, “Dove li portate?” E ultimamente siete diventati tutti specialisti di minori non accompagnati, dibattete di diritto d’asilo, hotspot, cie. E invece non avete ancora capito che i primi a non capirci siamo noi. All’inizio mi sono chiesto perché la Francia li respingesse, poi mi sono chiesto perché li dovessimo condurre fino a Taranto e non a Trieste o, che so, a Firenze, o a Roma. Oggi ho capito perché siamo i più bravi d’Europa per quanto riguarda l’immigrazione. La verità è che sappiamo improvvisare. Oggi Taranto, domani può essere Crotone e dopodomani chissà».

Mi accorgo che anche questo funzionario a forza di occuparsi di immigrazione è diventato randagio come i migranti, irregolare nei pensieri ma proprio per questo insuperabile nel gestirli. E infatti è proprio lui che rientrando in caserma inizia le operazioni di trasferimento.

Da una porta stretta, quando gli ambulanti di Ventimiglia montano i banchi del mercato, vedo cosi scendere dalla caserma i primi migranti, quasi tutti uomini, e salire sul bus. Ne individuo uno che, raccogliendo e vagabondando, è riuscito a procurarsi un trench di colore cammello lunghissimo e largo che si tiene sulle spalle come un mantello insieme a un sacchetto della spazzatura. «Ci mettono dentro gli oggetti personali. In realtà pochi ma è proprio per questo che finiscono per essere inseparabili» mi fa notare Mattia, un altro agente di origine calabresi, che riesco a fermare e che la notte scorsa, mi rivela, ha dormito in un agriturismo di Ventimiglia.

Gli agenti

Per compiere esclusivamente questa operazione di trasporto, il Viminale disloca infatti 20 agenti che la notte prima del viaggio pernottano negli alberghi della città ligure. «E alloggiano anche da noi» mi aveva annunciato orgogliosa la donna che, la scorsa notte, mi ha accolto all’hotel Sole Mare. Il costo medio delle camere d’albergo a Ventimiglia è di 120 euro. «E però guarda che noi agenti dormiamo in doppia» mi avverte Mattia che evidentemente aveva già provato a fare il conto per sé e per i colleghi. Per farvi dormire a Ventimiglia lo Stato paga dunque 1200 euro a notte? «Non lo so, ma ti garantisco che dormire a Ventimiglia è due volte peggio perché sei chiamato a lavorare in questo paradiso» ribatte Mattia.

Quanto meno vi pagano l’indennità, gli dico per provocarlo. «Ma io ti rispondo che preferirei farne a meno. È vero che abbiamo l’indennità di servizio di 23 euro al giorno, ma se la vuoi sapere tutta è da maggio che non la ricevo». Insieme ci fermiamo un attimo a guardare i 16 migranti che intanto hanno preso posto sull’autobus e che, mi informa, si uniranno a quelli che la Francia «oggi deciderà di respingere». Dove? «A Ponte San Luigi. Non è solo frontiera. È lì che ci sono gli uffici dove i migranti vengono fotosegnalati». E dunque, seguendo il bus che alle 7, 30 lascia Ventimiglia, oltrepasso la frazione di Latte e mi arrampico fino al confine dove dell’Italia rimane solo una vecchia caserma e il bar “Le Grotte” dove i monegaschi si fermano per fare colazione «e mangiare bene», precisa il cameriere. E anche qui mi vengono chiesti i documenti da una funzionaria donna che i colleghi uomini chiamano «dot» che sta per dottoressa ma con un pizzico di originalità. Le chiedo che tipo di migranti siano quelli che verranno trasportati a Taranto e mi risponde che questo si potrà comprendere non appena la Francia li lascerà passare e a loro toccherà il compito di “trattarli”.

Con questo termine gli agenti indicano le operazioni di fotosegnalamento e di identificazione. E capisco quanto l’operazione sia lunga solo alle 13, quando in pratica finisce. Rimango anche io alla frontiera e per ore vedo un’umanità camminare e imprecare contro la Francia che ha deciso di rifiutarli e maledirli. Attenzione, non sono migranti irregolari. Me lo spiega un ispettore di La Spezia che si è impadronito dei trattati e di tutte quelle strambe norme europee che fatichiamo a capire e ancora di più a modificare. Tutti hanno in mano un foglio di permesso regolare da rifugiato che è stato rilasciato dal governo italiano. Per l’Italia sono regolari. Ma non lo sono per la Francia.

Prova a spiegarmelo bene un prefetto che presiede una delle 20 commissioni territoriali che hanno il compito di esaminare le richieste d’asilo: «È uno dei grandi temi sul tavolo europeo. Lo status di rifugiato permette al migrante di circolare nell’area Schengen per tre mesi. Ma, superati i tre mesi, se il migrante non riesce a trovare un lavoro, deve fare ritorno in Italia». E poi ci sono gli irregolari autentici. «Che sono appunto quelli non identificati e che condurremo a Taranto. La Francia chiama i nostri uffici e ci consegna questi migranti senza identità che dice provengano dall’Italia. Loro asseriscono, e fai attenzione, asseriscono, siano stati fermati nelle zone di confine. Ma se sono appunto senza identità mi chiedo come faccia il governo francese a stabilire che sono passati dall’Italia. In pratica noi ci fidiamo di loro» riflette ancora l’ispettore. Quanti sono? «In questo periodo circa 80 al giorno». In attesa di seguire il bus, ne fermo uno “regolare” che proviene dalla Francia e che, in inglese, mi dice, i gendarmi hanno lasciato senza scarpe. Mi urla di guardare i piedi. È scalzo. Poi se ne va. E dopo di lui ne vedo altri, tutti infuriati e tutti gridare «Viva Italia».

Alla frontiera

In mezzo a un gruppo di agenti di polizia interrogo l’unica donna. Si chiama Sabrina. È colombiana, fa il medico ed oggi è proprio entrata negli uffici dove avviene il fotosegnalamento e vengono effettuate le visite mediche. Le chiedo se sia vero che i francesi non solo caccino i migranti ma li maltrattino pure. «Santi non sono e ti prego di non farmi dire altro…». Lo chiedo anche al mediatore culturale, un arabo che mi viene presentato dal cameriere del bar cominciando dal suo curriculum, «ha studiato a La Sapienza…». È vero che alcuni migranti denunciano dei furti da parte delle autorità francesi? «Io non lo posso dire ma tu puoi scriverlo». E mentre me lo dice mi accorgo che è arrivato un altro bus della Riviera Trasporti. Domando il motivo al dipendente della società e mi risponde che il bando prevede la presenza di due bus per fronteggiare eventuali presenze massicce. «Ma oggi ne partirà solo uno», è l’unica concessione che mi fa l’autista del secondo bus ma che, forse già pentito, accompagna a una cattiva notizia. «Si è rotto il cervellone». Il cervellone è il sistema informatico che immagazzina e verifica le identità dei migranti. Si trova a Roma. Ed è vero che ha qualche malfunzionamento come mi conferma la funzionaria donna che mi spinge ancora a lasciare perdere: «Le follie lasciatele fare a noi».

E invece il bus parte. E lo capisco quando, alle 12,50, l’autista, nel parcheggio di fronte alla caserma, inverte il senso di marcia e i furgoni della polizia si accodano dietro. Sono due con dentro 10 agenti ciascuno.

Per coordinare la forza e per garantire che tutti i protocolli vengano rispettati, i due furgoni sono seguiti da un’auto grigia con dentro tre funzionari. Uno è della polizia scientifica, un altro ha il compito di guidare l’auto e l’altro di coordinare. Sul bus i migranti sono circa 35. «E ti prego di dire che hanno mangiato tutti. Gli diamo perfino un sacchetto con dentro del cibo» mi raccomanda l’autista che non proseguirà il viaggio ma che avrà il compito di pulirlo al suo ritorno. Comincio così a seguirli per la strada stretta ma ricca di cespi e profumi speziati che mi riporta al centro di Ventimiglia. E fisso i lampeggianti accesi dei due furgoni della polizia che rimangono, anche loro, nonostante tutto bloccati nel traffico che alle 13 è sempre di punta. Imbocco anche io l’autostrada A10, da Ventimiglia a Genova, la strada che è sempre stata per i milanesi l’evasione e la finestra sul mare ma che oggi mi appare lunghissima sia per la velocità - che per non perdere di vista il bus non può mai superare i 100 km orari - sia per il caldo che è un avviso di agosto.

Il viaggio

Inizio così a dimenticare Sanremo, Taggia, Alassio, Pietra e Finale Ligure e poi Varigotti, Varazze, Cogoleto. Guardo il bus che intanto i passeggeri hanno completamente oscurato con le tende che sempre sono ripari sia dal caldo che dallo sguardo. E oltrepasso Rapallo, Chiavari e Sestri senza fermate e restringimenti quando ormai è già il primo pomeriggio e vorrei fermarmi. E invece la prima sosta, secondo le disposizioni del Viminale, è prevista allo svincolo di Brugnato-Borghetto Vara, a 71 km da Genova e a 25 da La Spezia. Il bus si dirige presso la caserma della polizia stradale che, per i migranti, ha attrezzato anche 4 bagni chimici nel parcheggio antistante cintato di alberi e quindi di ombra. Da quando ho lasciato la frontiera di Mentone è la prima volta che vedo i migranti scendere e gli autisti darsi il cambio. Per mezz’ora il bus rimane a motore acceso. Ma intuisco subito che sono più i migranti che dormono che quelli che scendono, un po’ come i viaggiatori che, nella piazzola di sosta, proprio di fronte alla caserma, incrocio e trascuro. Continuo cosi a seguirli al punto che mi diventano familiari e sentirmi anche io parte di questa strampalata corriera che scende lungo l’Italia senza chiedersi la ragione ma accettandone la missione.

A Taranto, mi dice al telefono un uomo del Viminale, a oggi c’è l’unico hotspot che si possa dire europeo: «10 mila metri quadrati, Tensostrutture e materassi veri. È il meglio che gli possiamo dare. Credetemi». Ma di sicuro è il più lontano che si possa raggiungere da Ventimiglia. «E non è un segreto dire oltre i 23 uomini di Ventimiglia, altri 23 si daranno la staffetta alla questura di Prato. Solitamente si fa così» riconosce questo dirigente. E ancora dunque proseguo superando Viareggio, Lucca e quindi Prato, insomma Toscana.

E infatti a Prato non si verifica solo la staffetta tra gli agenti, ma addirittura l’integrazione tra Arma dei Carabinieri e Polizia di Stato. I mezzi aumentano e perfino gli uomini impiegati. Da Prato si alternano come scorta un furgone della polizia, uno dei carabinieri, una jeep con artificieri e un’altra auto sempre della polizia con a bordo i soliti tre funzionari. Non riesco più a contare gli uomini ma di sicuro riesco a vederli e quindi ad aggiungermi, a continuare verso Roma dove però l’autista rallenta per via degli incolonnamenti ma dove tuttavia non intende, e non può, sostare. Devo attendere fino a Terni, quando sono le 21,15 per fermarmi. Ed è all’autogrill di Giove che per la prima volta assisto e scopro che perfino i bisogni fisici dei migranti sono diventati una procedura di polizia e non solo di pulizia.

Le soste

Per fare accedere i migranti nei bagni ed impedire una loro fuga, gli agenti si chiudono compatti formando un corridoio umano. In quei minuti i bagni degli uomini vengono destinati esclusivamente ai migranti. Me lo comunica la dipendente del bar, una giovane biondina ormai consumata: «Vada nel bagno delle donne. Ne avranno per un po’». E sempre vedo, anche adesso che le facce degli agenti sono cambiate, la stessa prudenza ma anche la stessa pazienza. «E gli offriamo nuovamente da mangiare» mi dice un carabiniere che vedo salire sul bus con delle buste da distribuire. Rivedo quindi l’autista della mattina che nonostante le ore non mi dà informazioni ma si rilassa in viso e mi dice: «Guarda che è tutto regolare. Sono i francesi a trattarli male non certo noi». Ne sono convinto e lo lascio cenare. E come i migranti, che sono risaliti e adesso sono sul sedile, aspetto di ripartire quando sono ormai le 23. Mi accorgo finalmente che è diventato impossibile perderli non solo per i lampeggianti che ormai di notte segnalano, anche a distanza, il loro passaggio ma anche per l’autostrada che verso le 3 di notte si è ormai svuotata e che ritrovo improvvisamente brillare di luci a causa di un incidente. Guidando e seguendo mi spingo fino a Napoli e quasi mi sveglia l’inattesa uscita che il bus effettua dall’autostrada e il suo ingresso nella città.

Vedo dunque l’intera colonna di mezzi dirigersi verso la caserma di Napoli Gianturco per effettuare quel necessario ricambio di agenti che ormai mi sembra un rito quasi rassicurante ma ancora una volta insensato come tutto il viaggio che ormai è di 14 ore e che continua per l’autostrada Napoli-Canosa. E però è solo a Cerignola, quando il bus si ferma per l’ultima sosta in autogrill, è solo allora che comprendo come qui tutti, dagli autisti agli agenti fino ai giornalisti, in realtà desiderano Taranto più dei migranti. È a Cerignola, quasi a fine di questo viaggio, che comprendo, in verità, che i veri spaesati siamo noi. A Taranto appena scorgo la sagoma dell’Ilva, e già tutto mi sembra fumo, capisco che di tutto il viaggio il senso è proprio il non senso.

Alle 6,15 del mattino quando il bus si ferma al varco Nord di Taranto scopro che l’hotspot è stato costruito in prossimità del porto, in mezzo a navi scariche, rottami, e gru. È il confine del confine. «Se riparti da qui vuole dire che dopo davvero puoi superare qualsiasi frontiera» mi dice un agente che si è appoggiato sul furgone della polizia e che aspetta che i migranti scendano per tornarsene a casa. Gli chiedo se abbia mai visto migranti ripartire da qui. «Non solo li ho visti ma alcuni li ho pure ritrovati a Ventimiglia. E ti dico la verità. Vorrei vederli davvero passare in Francia e ti dico pure che mi piacciono più loro che i francesi. E poi lo sai anche tu. Risaliranno tutti. Spero che ce la facciano tutti».


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Carmelo Caruso