Migranti, l'altra voce della Chiesa
Cresce il numero di sacerdoti contro l'accoglienza per tutti i migranti, ma restano nel silenzio. Panorama ha raccolto le loro opinioni segrete
«Moriremo di felpata prudenza». Così dice a Panorama un esponente del basso clero ben introdotto con vescovi e cardinali. Prudenza declinata a singhiozzo. Sarebbe questa la parola che ricorre quando si chiede ai vertici della Cei di esprimersi sul nodo legislativo dell’eutanasia, una questione pressante in Italia, visto che il 24 settembre la Corte costituzionale si dovrà esprimere se nel frattempo il Parlamento non batterà un colpo. Ma la stessa prudenza molla gli ormeggi quando, invece, i vescovi devono dire la loro sul fenomeno che riguarda i migranti e la loro tratta in corso sulle acque del Mediterraneo.
«Il problema è che il tema migranti assume una connotazione sempre più spesso politica, sebbene ammantata di evangelismo». Così dice un altro sacerdote di una diocesi del Nord Italia, a testimonianza di uno scollamento non solo tra Chiesa e fedeli, ma anche tra alto e basso clero, tra vescovi e sacerdoti. Di questa politicizzazione parlò anche il cardinale Gerhard Müller a ridosso delle elezioni europee dello scorso maggio. «Dire, come hanno fatto il direttore di Civiltà cattolica, padre Antonio Spadaro, e il presidente della Cei, Gualtiero Bassetti, che Salvini non è cristiano perché è contro l’immigrazione, è stato un errore», dichiarò l’ex prefetto della Dottrina della fede al Corriere della sera.
Sottocoperta c’è una Chiesa che non ci sta alle semplificazioni e agli slogan. Se in provincia di Pavia c’è un don Roberto Beretta, sacerdote a Pieve Porto Morone, che dopo aver parlato con il vescovo Corrado Sanguineti rinuncia a dir messa per Carola Rackete, la capitana della Sea-Watch 3, ci sono molti sacerdoti che prendono le distanze da questo movimentismo mediatico pro migranti coperto da istanze quasi divine. Solo che non si espongono.
Chiedono di non essere citati, hanno paura di ricevere richiami, di essere puniti. «Tra il clero c’è una parte ideologizzata politicamente e che cavalca il tema migranti per una battaglia quasi partitica, questa parte è rumorosa, ma non maggioritaria. Un’altra parte si adatta cercando di barcamenarsi, e un’altra, spesso fatta di giovani sacerdoti, non comprende l’accoglienza declinata quasi come un nuovo dogma», dice ancora il prete ben introdotto. Conferme arrivano da almeno cinque diocesi italiane - da Nord a Sud - che abbiamo setacciato per questa inchiesta, sentendo diversi parroci e chiedendo qual è il clima nel loro presbiterio. «Soprattutto» risponde un prete del Centro Italia «ci sono tanti confratelli che mostrano un dissenso sull’eccesso di attenzione che viene riservato alla questione, a scapito di tanti altri problemi che riguardano la gente e che ci troviamo davanti ogni giorno. Sembra che l’unica categoria di poveri sia quella dei migranti».
La questione è seria, perché il governo del fenomeno migranti non è un dogma, ma una questione laica, fatto salvo ovviamente il soccorso umanitario e il rispetto della dignità di ogni persona. Alcuni vescovi, nonostante il refrain ecclesiale martellante, hanno mostrato di articolare il problema con buon senso e secondo la dottrina sociale della Chiesa. Il vescovo di Ventimiglia-Sanremo, monsignor Antonio Suetta, in un’intervista al quotidiano Qn ha ricordato che «tra i doveri di uno Stato c’è anche quello di governare i flussi migratori con umanità, verità e senso delle proporzioni. Nell’ottica di una redistribuzione dei migranti fra i Paesi dell’Unione è comprensibile che si chieda di indirizzare le navi anche verso altri porti europei o comunque di condividere l’accoglienza con altre nazioni». Sempre Suetta ha dimostrato di guardare il problema in tutta la sua profondità. «Sono certo», ha detto al giornale bolognese, «che la Chiesa ha fatto e fa molto con grande umanità e retta intenzione. Rimane il rischio che alcune realtà “solidali” possano utilizzare il fenomeno migratorio per altri scopi: impoverire l’Africa per lasciarla alla mercé di certi potentati; favorire uno stravolgimento dell’identità europea attraverso l’approdo di masse umane disomogenee».
Il riferimento all’Africa non è secondario, soprattutto se confrontato con una interpretazione del fenomeno migratorio che lo vorrebbe ineluttabile, epocale, quasi un segno di bibliche proporzioni. I vescovi di ben 16 conferenze episcopali dell’Africa occidentale, riuniti in Burkina Faso dal 13 al 20 maggio scorso, ci mostrano il problema da un altro punto di vista. «Voi [giovani]», hanno scritto, «rappresentate il presente e il futuro dell’Africa che deve lottare con tutte le sue risorse per la dignità e la felicità dei suoi figli e figlie. In questo contesto, non possiamo tacere sul fenomeno delle vostre migrazioni, in particolare verso l’Europa. I nostri cuori soffrono nel vedere le barche sovraccariche di giovani, donne e bambini che si perdono tra le onde del Mediterraneo. Certo, comprendiamo la sete di quella felicità e benessere che i vostri Paesi non vi offrono. Disoccupazione, miseria, povertà rimangono mali che umiliano. Tuttavia, non devono portarvi a sacrificare la vita lungo strade pericolose e destinazioni incerte. Non lasciatevi ingannare dalle false promesse che vi porteranno alla schiavitù e a un futuro illusorio! Con il duro lavoro e la perseveranza ce la potete fare anche in Africa e, cosa più importante, potete rendere questo continente una terra prospera».
Le chiese in Africa si preoccupano da sempre di far restare i loro figli a casa. «I nostri giovani devono imparare a essere pazienti e a lavorare sodo nei loro Paesi d’origine» ha dichiarato al mensile Il Timone il cardinale nigeriano John Olorunfemi Onaiyekan, «Anche se ciò può essere difficile, sicuramente non è tanto drammatico quanto finire nel mercato degli schiavi o nelle prigioni della Libia». Peraltro, molti vescovi africani hanno più volte spiegato che il sistema di aiuti economici occidentali ha spesso ottenuto l’effetto contrario, applicandosi a Paesi in via di sviluppo con una serie di problemi interni di corruzione e con logiche di restituzione del debito che intrappolavano ulteriormente le economie locali. Inoltre, al doppio sinodo sulla famiglia celebrato in Vaticano nel 2014 e 2015, i padri africani sottolinearono come la concessione degli aiuti umanitari all’Africa viene spesso accordata dietro la promessa di promuovere politiche come quella gender, il matrimonio omosessuale o l’aborto. In tutto questo si nota che la strada da fare per «aiutarli a casa loro» è accidentata e dovrebbe richiamare l’Europa e l’Occidente a un esame di coscienza, per valutare se si fa tutto il possibile per favorire lo sviluppo dell’Africa e il diritto a non emigrare, o si promuove il fenomeno della migrazione di massa anche con il sistema di aiuti. I
l cardinale guineiano Robert Sarah, prefetto al Culto divino, ha dichiarato alla rivista francese Valeurs actuelles che «tutti i migranti che arrivano in Europa sono senza un soldo, senza lavoro, senza dignità... Questo è ciò che vuole la Chiesa? La Chiesa non può cooperare con questa nuova forma di schiavitù diventata migrazioni di massa. Se l’Occidente continua in questo modo fatale, c’è un grande rischio che, a causa della mancanza di nascite, sparisca, invaso dagli stranieri, proprio come Roma è stata invasa dai barbari».
Monsignor Giampaolo Crepaldi, arcivescovo di Trieste, parlando con il quotidiano La Verità ha sottolineato che «i vescovi dell’Africa invitano i loro giovani a non emigrare e la dottrina sociale della Chiesa dice che esiste prima di tutto un diritto a “non emigrare” e a rimanere nella propria nazione e presso il proprio popolo. Del resto, si sa che dietro la marea migratoria si celano molti interessi anche geopolitici. Le migrazioni non sono quindi un bene in sé. Dipende se servono il bene dell’uomo o no». Il concetto riprende alcuni passaggi che il nono e il decimo Rapporto sulla Dottrina sociale della Chiesa dell’Osservatorio Cardinale Van Thuân, di cui Crepaldi è presidente, spiegano nel dettaglio: l’emigrazione non può essere in nessun modo forzata o pianificata; la comunità internazionale deve affrontare i problemi che nei Paesi di emigrazione spingono o costringono persone e famiglie ad andarsene dando il proprio contributo per la loro soluzione; e, infine, il dovere di chi emigra di verificare se non ci siano invece le possibilità per rimanere e aiutare il proprio Paese a risolvere le difficoltà. «Le politiche dell’immigrazione devono considerare i bisogni di chi chiede accoglienza» dice ancora Crepaldi. «Allo stesso tempo interrogarsi sulle reali possibilità di integrazione oltre l’assistenza immediata e di altri problemi, come per esempio combattere la criminalità organizzata che organizza gli sbarchi, disincentivare la collusione di alcune Ong, non scaricare la responsabilità sull’Italia ma favorire la collaborazione europea. La carità personale getta spesso il cuore oltre l’ostacolo, ma la politica deve regolare l’accoglienza in modo strutturale nel bene di tutti».
La carità, punto imprescindibile per un cattolico che voglia definirsi tale, però richiede, dicono i sacerdoti che abbiamo interpellato, un paio di osservazioni. «Se si perdesse la connessione soprannaturale, la carità diventerebbe mera filantropia, e la Chiesa rischierebbe di trasformarsi in una pur benefica organizzazione assistenziale», scriveva in un libro del 2016 l’attuale prelato dell’Opus dei monsignor Fernando Ocáriz. In modo più diretto il vescovo emerito di Ferrara-Comacchio, monsignor Luigi Negri, ha detto che «ogni prossimo è in difficoltà, non solo qualcuno. E la prima difficoltà è che la maggior parte non conosce Cristo. Perciò il primo modo di assumersi la sfida della povertà del mondo è annunciare Gesù». Da questo punto di vista il problema dell’immigrazione e dell’integrazione incrocia il fatto dell’evangelizzazione. Un problema che comunque ha una portata laica di rilevanza fondamentale. L’allora arcivescovo di Bologna, cardinale Giacomo Biffi, avvertiva della questione culturale da considerare nel processo di integrazione, specialmente con immigrati fedeli dell’Islam.
Nessun Papa ha mai messo in dubbio il dovere sull’accoglienza da riservare allo straniero, è falso affermare il contrario ed è riduttivo tirare per la talare Benedetto XVI rispetto a Francesco. Nello stesso tempo sarebbe falso sottacere il dissenso che si avverte nella Chiesa, nella gerarchia, nei sacerdoti e nei fedeli, circa un’interpretazione del fenomeno migratorio che sembra essere assunto come una specie di nuovo dogma e segno ineluttabile dei tempi. Per molti questa finisce per essere una mera «politicizzazione» del fenomeno.
Il segreto di Pulcinella di questa situazione è frutto di una scelta precisa. Papa Francesco ha voluto ridimensionare i cosiddetti principi non negoziabili, nel senso che il povero e il migrante sono ora messi allo stesso livello dell’abortito o di un Vincent Lambert, lasciato morire in Francia togliendogli cibo e acqua. Tutti vittime della cultura dello scarto. Se c’è una attenzione da riservare a tutti i bisognosi, un cardinale che chiede di restare anonimo dice che si è scelto così di non riconoscere la gerarchia propria dei cosiddetti principi non negoziabili, il primo dei quali è il diritto alla vita, senza la quale non è possibile godere di nessun altro bene. «Quelle di Benedetto XVI e Giovanni Paolo II» dice a Panorama il cardinale, «non erano fissazioni morali, ma indicazioni di ciò che è fondamentale per non perdere l’umano. Mettere sullo stesso piano della difesa della vita (contro aborto e eutanasia), o addirittura far precedere, principi gerarchicamente di rango inferiore, come quello dell’emigrazione o dell’ecologia, è una scelta precisa di natura teologica e antropologica». Sottocoperta c’è una Chiesa che va controcorrente.
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