Migranti: ecco perché Malta non apre i porti
La decisione di oggi, di aprire alla Sea Watch è a suo modo storica, per motivi politici, economici e per paura
Malta ha deciso di aprire porti alla Sea Watch e alla Sea Eye, le due navi ferme davanti alle sue coste e di far sbarcare i 49 migranti a bordo, ormai stremati dopo giorni di attesa nelle acque del Mediterraneo. Saranno trasferiti (assieme ad altri 150 migranti approdati in precedenza sull'isola) in almeno 8 paesi Ue che hanno dato disponibilità ad accoglierli, fra i quali l'Italia. Ma il caso non spegne le polemiche. Intanto perché il ministro dell'Interno, nonché vicepremier di governo, Matteo Salvini (in missione a Varsavia per tessere alleanze politiche in vista delle prossime europee di maggio) ha fatto sapere di non condividere la soluzione in quanto non consultato. E poi perché la scelta di Malta, giunta alla fine di una estenuante trattativa, non modifica sostanzialmente la questione.
Una questione in cui si sono intrecciati diritto internazionale, convenzioni marittime, regolamenti europei, rivendicazioni dei paesi affacciati sul Mare Nostrum e inevitabili interessi economici. E che, troppo spesso, finisce con il ricadere sul destino di tante vite umane a bordo delle imbarcazioni in balia dei flutti verso la «terra promessa».
Già, perché un punto è chiaro: un conto è l'accoglienza dei migranti con la ridistribuzione fra paesi Ue o i rimpatri nelle rispettive terre di provenienza, altro è la gestione dei soccorsi in mare. E su quest'ultima non si dovrebbe neanche discutere: è il diritto internazionale e, prima ancora, la «legge del mare» a imporre il salvataggio di ogni vita umana in pericolo. Eppure, non mancano frizioni sull'emergenza sbarchi. Ecco perché.
La zona Sar di Malta troppo vasta.
Appigliandosi alla zona aerea ereditata dal dominio britannico, Malta rivendica una gigantesca area marittima, di pari estensione: 250 mila chilometri quadrati per una superficie terrestre di appena 315 km² (motivata dal fatto che, se un aereo in sorvolo nel cielo maltese precipitasse, l'eventuale emergenza o un'inchiesta non potrebbero essere gestite da Malta stessa). Di fatto, si tratta di un'area troppo grande per assicurare in modo continuativo un adeguato servizio di ricerca e soccorso. Tanto più perché la zona Sar libica, rimasta a lungo inesistente, è stata definita da Tripoli e riconosciuta dall'Organizzazione internazionale marittima solo a giugno scorso ma continua a complicare la situazione (per le ben note ragioni di sicurezza e rispetto dei diritti umani). La conseguenza è che l'Italia si è trovata spesso a coordinare, giorno e notte, tutte le operazioni di soccorso di un milione di chilometri quadrati di mare: un'area enorme rispetto a quella della quale è, giuridicamente, responsabile. Il nodo resta un accordo di cooperazione sulla gestione delle cosiddette «zone Sar» ovvero le aree di «Search and rescue» (ricerca e salvataggio) nel Mediterraneo. Mai ufficializzato fra Roma e La Valletta. Ma non è tutto.
Le «dispute» fra Malta e Italia.
Fra Italia e Malta, ci sono almeno tre motivi di attrito.
Il primo riguarda l’ormai famigerata nozione del «place of safety» o POS (il porto sicuro) dove le navi devono portare i migranti tratti in salvo. Nel 2004, dopo il respingimento in acque australiane del cargo norvegese Tampa carico di migranti, l’Organizzazione marittima internazionale integrò le regole di soccorso in mare. Secondo la nuova definizione, tale luogo è quello dove «si ritiene che le operazioni di soccorso debbano concludersi e la sicurezza per la vita dei sopravvissuti non è minacciata, dove possono essere soddisfatte le necessità umane di base e definite le modalità di trasporto verso la destinazione successiva o finale, tenendo conto della protezione dei diritti fondamentali nel rispetto del principio di non respingimento».
Malta, però, è l’unico paese ad aver posto la riserva su questa versione emendata e, quindi, non la applica: così, La Valletta fa valere il porto più vicino al punto dell'emergenza, spesso Lampedusa. Perciò, nonostante i barconi in partenza dalle coste libiche siano per lo più intercettati in acque di pertinenza maltese, vengono indirizzati verso i porti italiani. Non solo.
Le norme prevedono l'obbligo di rispondere alle richieste di soccorso e di ricercare attivamente l'imbarcazione in pericolo imminente. Ma se la maggioranza dei paesi accetta l'sos delle «carrette del mare» piene di migranti in quanto insicure (dato che sono prive dei requisiti di navigabilità previsti dagli standard internazionali), Malta ha un'interpretazione divergente e interviene solo in caso di verosimile naufragio. Inoltre, non di rado le forze di soccorso maltesi sostengono di non aver ricevuto l'allerta e, anzi, di essere rifiutate dai barconi perché uno sbarco a Malta rende impossibile (l'isola prevede una «detenzione» nei centri migranti) o complica il viaggio verso la meta finale nel Vecchio continente (il più delle volte Francia, Germania e paesi del Nord).
La seconda disputa fra Roma e La Valletta riguarda la sovrapposizione delle aree marittime: Malta ha esteso la sua anche su una parte di acque tunisine, impedendo al paese di intervenire in autonomia in caso di soccorsi a poche miglia dalle coste (per inciso, anche la Tunisia rivendica alcune acque nella zona delle isole Pelagie italiane).
Infine, c’è la storica questione della «piattaforma continentale»: la proprietà del sottosuolo marino. Diverse le zone mediterranee contese. Da anni Malta cerca di sfruttare la (presunta) presenza di petrolio nei suoi fondali a suon di concessioni per l’esplorazione. Ma anche all’Italia viene addossata la responsabilità di aver esteso la rispettiva porzione di mare per le sue trivellazioni. Di qui lo scontro fra i due paesi, poi seguito da una moratoria. Più volte si è parlato di un «accordo informale» legato proprio a questo interesse. Ma entrambi i governi hanno smentito.
Malta teme di diventare il primo porto degli sbarchi.
Del resto, saltata pochi mesi fa la riforma del regolamento di Dublino che, come noto, assegna i richiedenti asilo nel primo paese di approdo, Malta non vuole essere la porta di ingresso di migranti che non potrebbero muoversi altrove.
Difficile, stando così le cose, percorrere anche altre strade come, per esempio, la creazione di zone Sar congiunte come è avvenuto nell'Artico. Qui, ben sette paesi (Stati Uniti, Canada, Russia, Regno Unito, Danimarca, Finlandia e Islanda) hanno siglato un accordo, in vigore dal 2013, per il coordinamento dei soccorsi. E, senza un'intesa fra i paesi Ue e il rispetto delle quote di accoglienza dei migranti da parte dei paesi dell'Est, tutto resta bloccato.
- Assalto di migranti a Ceuta: la Spagna schiera l'esercito | video - Panorama ›
- La lezione della Spagna che schiera l'esercito contro i migranti - Panorama ›
- Niente di nuovo dal vertice Itala-Germania sui migranti. Siamo ancora soli - Panorama ›
- Dietro la cordialità tra Mattarella e Macron restano i nodi Libia e migranti - Panorama ›
- Così l'Italia fa salvataggi in mare - Panorama ›
- Il flop dei rimpatri per i migranti | i dati - Panorama ›
- «La situazione migranti a Lampedusa è fuori controllo» - Panorama ›
- Naufragio in Tunisia: 152 migranti soccorsi, almeno 12 dispersi - Panorama ›