Migranti, tra empatia e realtà virtuale
Alcuni meccanismi psicologici mettono alla prova le nostre capacità di aiutare chi è in difficoltà. Medici senza frontiere si affida alla tecnologia
"Più ne muoiono, meno ce ne importa". Riassume così la nostra reazione di fronte alle tragedie umanitarie Paul Slovic, psicologo americano che alla percezione del rischio e all'aritmetica della compassione ha dedicato anni di studi. L'indifferenza rispetto alle sofferenze che riguardano masse di persone, ha spiegato l'ottantenne Slovic in una recente Ted Talk, non è il risultato della nostra cattiveria, ma dipende da meccanismi della nostra mente che sono vere trappole e ostacolano il nostro istinto di aiutare gli altri.
Il cervello va in tilt
Come ha detto il divulgatore scientifico americano Paul Brodeur, citato anche dallo psicologo, le statistiche sono esseri umani le cui lacrime sono state asciugate. I numeri nudi e crudi, per enormi che siano, anzi paradossalmente proprio quando sono enormi, non riescono a far scattare in noi una risposta emotiva. Causano invece ciò che Slovic chiama intorpidimento psichico. Quella melassa che si crea nel cervello di tutti noi quando leggiamo, per esempio, i numeri del fenomeno delle migrazioni. O dei morti nella guerra in Siria. Centinaia di migliaia di persone sotto le bombe, milioni di esseri umani costretti ad abbandonare le proprie case per colpa di guerre, tumulti politici, carestie, siccità. Troppo.
Ed ecco che scatta il secondo diabolico meccanismo, il falso senso di impotenza. Quando i problemi sono così enormi è davvero difficile pensare di poter personalmente fare una qualunque differenza, così spesso di finisce per rinunciare a fare anche il poco che potremmo.
Tra ideali e realtà
Il modo in cui razionalmente sappiamo che dovremmo considerare il valore di ogni vita umana, man mano che il numero di persone a rischio aumenta, spiega Slovic, purtroppo non è lo stesso con cui effettivamente lo valutiamo. Ogni vita umana è di uguale valore, più vite sono a rischio più l'importanza di difenderle aumenta. In pratica però la reazione alla quale più comunemente assistiamo è che la prima vita è la più importante da proteggere in assoluto. Due vite non valgono per noi esattamente il doppio di una, ma un po' meno. E il valore che attribuiamo a ogni singola vita continua a diminuire mentre il numero totale sale. Quando le potenziali vittime salgono, dice lo psicologo, poniamo da 87 a 88, per noi non c'è più alcuna differenza, segno che si perde sensibilità man mano che quel numero aumenta.
L'empatia consiste nel provare a mettersi nei panni di un'altra persona per capire come si sente, cosa prova. Ma se le persone sono due come si fa? Diventa più difficile, e ancora di più lo diventa quando sono molte. Nei loro esperimenti Slovic e colleghi hanno dimostrato che le persone sono meno propense ad aiutare il singolo se hanno le percezione che ci siano molte altre persone nelle sue stesse condizioni rispetto a quando non ne sono consapevoli. Ma solo perché non puoi aiutare tutti non vuol dire che non devi aiutare nessuno. Essere consapevoli di questi meccanismi può perciò aiutarci ad agire.
Alla fine però è la singola storia che ci commuove, la singola persona quella che vogliamo aiutare. Così la foto del piccolo Aylan, il bimbo siriano di tre anni morto su una spiaggia turca, ha fatto di più per la causa siriana dei quotidiani bollettini di guerra che davano il conto delle centinaia di morti quotidiane. Prima della pubblicazione della foto il fondo istituito per la Siria dalla Croce Rossa svedese, racconta Slovic, riceveva donazioni per circa 8mila dollari al giorno. Dopo la foto sono diventati 430mila. I 250mila morti in Siria fino a quel momento non avevano suscitato la stessa compassione.
La realtà virtuale aiuta a immedesimarsi
Anche Medici senza frontiere, organizzazione in prima linea in moltissimi punti caldi del mondo, ha capito che è il coinvolgimento a fare la differenza. Per questo sta portando in giro per gli Stati Uniti una mostra interattiva, ma forse sarebbe meglio dire immersiva, nella quale mette i visitatori in condizione di provare cosa significhi davvero essere un rifugiato, una persona costretta ad abbandonare la propria casa in situazioni di emergenza.
Per aiutare gli spettatori a mettersi nei panni degli sfollati che sono stati costretti a fuggire dalla violenza, si simula il viaggio di un rifugiato, viene mostrato un film che sfrutta la tecnologia della realtà virtuale, da guardare indossando un apposito visore, si offre un'esperienza cinematografica avvolgente, in una sala con uno schermo a 360 gradi, e poi un vero percorso interattivo nel corso del quale il visitatore, a cui è stata assegnata una nazionalità e una particolare condizione all'ingresso alla mostra, dovrà fare ciò che un rifugiato del Sud Sudan o un profugo siriano è costretto a fare per mettersi in salvo, sotto la supervisione di una guida.
Per esempio scegliere, tra una serie di cartelli che rappresentano i beni più importanti, cosa portare con sé su un gommone, tra documenti, acqua, denaro, medicine, animali domestici, una sedia a rotelle. Alla fine però viene chiesto a ciascuno di lasciare qualcosa, perché non si può portare tutto ciò che si vorrebbe.
Chiunque voglia capire un po' meglio come vivano un rifugiato Rohingya in un campo profughi del Bangladesh, un profugo siriano sfollato a Shatila in Libano, o una famiglia sudanese nel campo dell'Onu di Bentiu, per fare solo qualche esempio, può guardare i video a 360 gradi messi a disposizione da Medici senza frontiere sul suo canale YouTube e riuniti in questa pagina dedicata ai documentari in realtà virtuale. Forse noterete che è un po' più facile essere empatici con chi soffre quando si ha la sensazione di trovarsi in mezzo a loro, sia pure solo per pochi minuti.
Uno dei video a 360 gradi prodotti da MSF