"Mio marito ha ucciso nostro figlio, ma ancora oggi non riesco a odiarlo"
Il dolore e i ricordi di Antonella Cocuzza, la donna siciliana alla quale un anno fa il suo compagno Ivan, poliziotto della Squadra mobile di Palermo, uccise il figlio di 9: "Quanto vorrei abbracciare tutt'e due"
Il tempo sembra viaggiare sempre su corsie preferenziali quando in scena vanno i momenti più belli della nostra esistenza. È passato un anno da quando Antonella Cocuzza non può più abbracciare il suo Gianluca. Una mattina di maggio, un attimo di sconforto ha attraversato l’animo del marito, Ivan Irrera, 40enne poliziotto della Squadra mobile di Palermo. La pistola di ordinanza, in un istante, ha pietrificato per sempre i sogni di una famiglia siciliana. Quelli di un bimbo (di appena 9 anni) con tanti progetti nel cassetto, quelli di un padre scoraggiato da una situazione economica delicata. Un gesto estremo fatto da un uomo che la stessa moglie continua a definire un marito “perfetto” e “protettivo”. Forse troppo, a tal punto da tenere per se il peso di tante preoccupazioni.
Per Antonella due dolori grandi con cui convivere. Due lutti da superare e tante domande a cui trovare adeguate risposte. Ad un anno dall’accaduto sembra aver ritrovato la serenità grazie alla presenza di chi, in questo duro percorso, non l’ha mai abbandonata. “A darmi la forza per andare avanti – confessa la giovane madre – è stato l’affetto delle persone che mi circondano da quando il mio Gianluca non c’è più. In situazioni del genere, spesso, si viene sopraffatti dall’idea che la società sia soprattutto pervasa da cattiveria e indifferenza. Non è così: il mondo è abitato anche da amore e solidarietà, da persone che farebbero di tutto per vederti sorridere ancora”.
E a confortare, sin dall’inizio, Antonella è stato il suo coraggio, quello di compiere una scelta lucida e altruista nella corsia dell’ospedale in cui Gianluca, dopo l’accaduto, lottava tra la vita e la morte. “Quando i medici – ricorda – mi dissero che per il mio bambino non c'era più nulla da fare pensai subito che, se avessi accantonato l’egoismo, avrei potuto offrire l’opportunità ad altre mamme di gioire ancora del sorriso dei loro figli. Così, con il cuore gonfio di dolore e di comune accordo con mia figlia Federica abbiamo acconsentito all’espianto degli organi del nostro piccolo angelo”.
Una scelta sensibile. Un gesto d’amore che è riuscito, a poco a poco, a donarle pace. “A darmi forza – continua Antonella – è stata la fede in Dio. Non posso più abbracciare fisicamente Ivan e Gianluca ma sento, quotidianamente, la loro presenza soprattutto quando prego. È come se il mio piccolo angelo fosse diventato un dolce tramite tra me e Dio”. Adora i bambini Antonella: la loro spontaneità le dona gioia. “Sentivo – racconta - che fossilizzarsi in casa sarebbe stato deleterio per me e per Federica. Così, ho provato sin da subito a reagire cercando un’occupazione a stretto contatto con il mondo dei più piccoli. Prima lavorando in un negozio specializzato in abbigliamento under 10 e poi come babysitter. Nel corso dell’anno, inoltre, sono stata invasa da lettere e pensierini realizzati dai compagnetti di Gianluca. Quando trascorro del tempo con loro è come se anche lui fosse tra noi. In occasione della festa della mamma, Gabriele, il migliore amico di mio figlio, mi ha dedicato parole commoventi ricordando i momenti vissuti insieme al suo compagno di mille avventure”.
E nei disegni di quei bambini, quel ragazzino dal sorriso sincero è diventato un angelo custode, per altri il principe azzurro dagli occhi blu. Nell’arco dell’anno sono state diverse le manifestazioni per ricordalo. Un memorial in occasione del suo decimo compleanno, incontri. Nella pagina Facebook “Amici di Gianluca” c’è chi ha pure avanzato l’idea di piantare un albero in suo ricordo. Proposta accettata, come del resto quella di intitolare a Gianluca il plesso della scuola che frequentava. “Questa scelta – conclude la mamma - mi ha particolarmente commossa e reso orgogliosi tutti i compagnetti. Adesso loro mi dicono: “Antonella, mi raccomando, vieni a trovarci spesso perché ormai la scuola ti appartiene”.