L'amarezza di Napolitano, il testimone
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L'amarezza di Napolitano, il testimone

La decisione dei giudici di Palermo di sentire il presidente della Repubblica ha indispettito il Quirinale

L’amarezza e l’irritazione di Re Giorgio Napolitano si possono solo dedurre dalle formale e gelida nota con la quale il Colle ha risposto alla richiesta della Corte d’Assise di Palermo di testimoniare al processo sulla cosiddetta trattativa Stato-Mafia. Il capo dello Stato resta «in attesa di conoscere il testo integrale dell’ordinanza di ammissione della testimonianza». E, questo, prosegue asciuttamente la nota, «per valutarla nel massimo rispetto istituzionale».

In quel «per valutarla» sta forse la chiave interpretativa del pensiero di Giorgio Napolitano in queste ore. Insomma, rispetto istituzionale sì. E certamente non solo ovviamente per il fatto che Re Giorgio è il presidente della Repubblica e quindi anche presidente del Csm. Ma è  anche l’uomo che nelle sole vesti di politico, fin da quando era il leader dei miglioristi del Pci, «antepose sempre le istituzioni al partito», come ha scritto di lui, l’amico di una vita Emanuele Macaluso.

Se quindi il presidente nel suo aplomb istituzionale, che nel vecchio Pci gli fece guadagnare il soprannome di Lord Carrington (l’ex segretario generale della Nato), afferma che però quella richiesta è da valutare, si deduce che qualcosa al Colle non quadri.

La richiesta a testimoniare da Palermo avviene peraltro a pochi giorni dal deposito delle motivazioni della sentenza di proscioglimento del generale Mario Mori, che ha fatto cadere un asse portante dell’impianto accusatorio sulla cosddetta trattativa Stato-Mafia.

Non solo, da Palermo insistono a chiamare a testimoniare il presidente sulla famosa lettera scrittagli dal suo ex consigliere Loris D’Ambrosio (morto d’infarto nel luglio 2012 mentre era nel tritacarne delle polemiche sulla «trattativa») su questioni relative al periodo tra il 1989 e il 1993, quindi quando non era ancora consigliere di Napolitano. Ma a Palermo insistono, dopo una richiesta già fatta nel giugno scorso e chiedono di sapere da Napolitano quali fossero quegli «indicibili accordi» appunto tra l’89 e il ’93 di cui D’Ambrosio scrive. 

Si infervora con Panorama.it un parlamentare da sempre grande estimatore del presidente: «Non solo D’Ambrosio parla di cose relative a un periodo quando non era ancora collaboratore di Napolitano alla Presidenza della Repubblica, ma questa richiesta viene meno alla stessa sentenza della Corte costituzionale nella parte in cui la Consulta riconosce in sostanza il diritto- dovere del capo dello Stato di affiancare continuamente ai propri poteri formali un uso discreto  del potere di persuasione, potere quindi composto da attività informali».

Se questo diritto-dovere, insomma, verrà violato come potrà il capo dello Stato d’ora in poi, e non solo Napolitano ma anche i suoi successori, esercitare la moral suasion? La richiesta della Corte d’Assise di Palermo rischia di creare un grave precedente istituzionale. Ecco perché il ministro della Giustizia Annamaria Cancellierti parla di «scelta inusuale». Ed ecco perché evidentemente c’è da valutare, eccome, da parte da parte del Colle, quell’invito.

Se lo aspettava che i giudici sarebbero tornati così alla carica? Forse no. «Proprio per il vulnus alle regole democratiche che un atto del genere rischia di infliggere», dice sempre il parlamentare estimatore del presidente.

L’assalto giudiziario al colle più alto, arriva dopo numerose esternazioni fatte in questi anni da Napolitano, spesso lette in chiave antigiustizialista.

Certamente una delle ultime, di neppure un mese fa, quando richiamò la politica alla responsabilità ma anche la magistratura ad avere più sobrietà e senso del limite, non saranno state musica per le orecchie di certe toghe, quelle più politicizzate. Quelle stesse che non apprezzarono i suoi ripetuti inviti alla riforma della Giustizia, il presidente lo fece anche la sera stessa della condanna Mediaset per Silvio Berlusconi.

Quelle toghe e quei loro giornali giudicati affini a cominciare da «Il Fatto quotidiano», che videro come fumo negli occhi tre anni fa, in occasione del decennale della morte di Bettino Craxi, il riconoscimento da parte di Napolitano che per lo statista socialista fu usata «una durezza senza uguali». Ma lo stesso Napolitano, come riporta Massimo Scafi per il Giornale, scrisse a D’Ambrosio prima che il consigliere morisse, una lettera in cui disse esplicitamente: «I tentativi di colpire lei sono fatti per colpire me!». E ancora: «Obiettiva e puntuale è la sua denuncia dei comportamenti perversi e calunniosi – funzionali a un esercizio distorto del proprio ruolo – di quanti, magistrati, giornalisti e politici non esitano a prendere per bersaglio anche lei e me».

In quei giorni terribili dell’estate 2012 non si ricordano molte voci da parte del Pd a difesa del presidente, ne arrivarono molte di più dal Pdl. Di cui alcuni settori ora accusano Napolitano di non aver fatto abbastanza per garantire l’agibilità politica di Silvio Berlusconi, giudicato dallo stesso presidente a Ferragosto «Il leader incontrastato» del centrodestra e di dieci milioni di elettori.

Ma la solitudine è un po’ un destino da sempre per Re Giorgio, anche quando era Lord Carrington e con una minoranza faceva nel Pci le sue battaglie miglioriste. Strano destino il suo che però è stato coronato da rivincita postuma: tutto il mondo politico in pellegrinaggio a chiedergli di restare per un secondo mandato. E se lui è il primo presidente della Repubblica italiana al secondo mandato, lo è per volontà innanzitutto di Berlusconi che fu il primo a pregarlo di fare  questo sacrificio. Non ci fu lo stesso afflato da parte del Pd di Pier Luigi Bersani.

Ma, come ha scritto nel libro «Politicamente s/corretto! (Audino autore), Macaluso, l’amico di tante battaglie fatte in minoranza a Botteghe Oscure con il Napolitano, il Pci-Pds-Ds non lo ha mai voluto come segretario, salvo doverlo votare poi come presidente della Repubblica. Di questa storia e di questa pasta è fatto Re Giorgio. Anche alla Procura di Palermo se ne renderanno conto.
 
 

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Paola Sacchi

Sono giornalista politico parlamentare di Panorama. Ho lavorato fino al 2000 al quotidiano «L'Unità», con la mansione di inviato speciale di politica parlamentare. Ho intervistato per le due testate i principali leader politici del centrodestra e del centrosinistra. Sono autrice dell'unica intervista finora concessa da Silvio Berlusconi a «l'Unità» e per «Panorama» di una delle prime esclusive a Umberto Bossi dopo la malattia. Tra gli statisti esteri: interviste all'ex presidente della Repubblica del Portogallo: Mario Soares e all'afghano Hamid Karzai. Panorama.it ha pubblicato un mio lungo colloquio dal titolo «Hammamet, l'ultima intervista a Craxi», sul tema della mancata unità tra Psi e Pci.

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