Nelson Mandela, il destino in un nome
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La storia di Nelson Mandela è segnata fin dalla nascita quando, nel 1918, i genitori scelgono per lui il nome di battesimo Rolihlahla, ovvero “colui che combina guai”. Solo dopo qualche anno di scuola, un insegnante deciderà di consegnarlo alla storia come Nelson, nome che viene ricordato accanto a quello di “Madiba”, titolo onorifico adottato dai membri anziani della sua famiglia, e divenuto ormai per il Sudafrica sinonimo di “Nelson Mandela”.
Un segno del destino, comunque. E, in effetti, Mandela, uomo di legge, combina davvero quei numerosi “guai” che lo portano prima a impegnarsi in politica, organizzando la resistenza passiva contro le leggi segregazioniste, e poi a imprimere una svolta radicale al movimento politico e multirazziale African National Congress (ANC), di cui entra a far parte non ancora trentenne. L’acutizzarsi dello scontro razziale interno al Paese e la lotta tra etnie lo porterà presto a prendere la decisione di sabotare con ogni mezzo il rigido Partito Nazionale (al potere dal 1948), fautore dell’apartheid, dell’isolamento dei vari gruppi etnici sudafricani e della conseguente negazione dei diritti politici, sociali e civili alla maggioranza nera sudafricana. Mandela si oppone a tutto ciò e organizza in prima persona la resistenza e la lotta armata, a partire dal 1952.
Il contesto in cui opera “Madiba” è il risultato di un antico possedimento coloniale, prima olandese e poi sotto influenza britannica, che nel 1910 si trasforma nell’Unione Sudafricana, autonoma dagli inglesi e del tutto indipendente a partire dal 1931. A lungo governato da una minoranza bianca attraverso il sistema dell’apartheid - ovvero l’isolamento e la discriminazione delle etnie di colore, a solo vantaggio della minoranza bianca - il Sudafrica proclama la Repubblica nel 1961, in seguito alle condanne internazionali (ONU) e all’uscita dal Commonwealth.
Ma Repubblica non significa parità di diritti, per le etnie antagoniste che non hanno la pelle bianca e non trovano pace. Così, Mandela matura progressivamente la convinzione di dover portare il caso all’attenzione del mondo. La svolta per lui avviene nel marzo del 1960, quando a Sharpeville gli scontri con la polizia si fanno più duri e lasciano decine e decine di morti sulle strade. Contestualmente, Mandela scopre dal giorno alla notte che il suo movimento (di cui è presidente ormai da un decennio) è stato dichiarato illegale. Così, crea la “Lancia della Nazione”, l’ala militare dell’ANC, di cui in breve diviene comandante in capo.
Il resto è storia: Nelson inizia a viaggiare all’estero, iniziando dal girare l’Africa, per ricevere un addestramento militare e raccogliere adesioni e solidarietà internazionali. Al suo rientro in patria viene però arrestato e condannato a cinque anni di carcere. Ma nel 1964, Mandela, processato insieme ad altri leader del movimento per aver complottato al fine di rovesciare il governo con la violenza, è condannato al carcere a vita e sbattuto in prigione, prima a Robben Island e poi a Pollsmoor.
Questo destino all’apparenza sventurato volge però in suo favore, poiché il carcere si trasforma per lui in un’opportunità: Mandela diviene in breve un simbolo internazionale della resistenza all’apartheid e della lotta contro il razzismo. Così nel 1990, quando finalmente il Sudafrica si arrende all’idea di libere elezioni democratiche per tutte le etnie, Mandela può uscire dal carcere a testa alta (anche se ormai ingrigito) e ricevere un nobel per la Pace tre anni dopo, poco prima di essere insignito del ruolo di presidente del Paese, titolo che manterrà fino alla designazione del delfino Thabo Mbeki, nel 1999.
Mandela è il suo Paese e il Sudafrica è Nelson Mandela, uno Stato non ancora pienamente democratico, ostaggio di una criminalità comune incontrollabile, relegato nell’anonimato per anni ma oggi uscito dal proprio isolamento per ritagliarsi un posto nella storia. A meno di non combinare altri “guai”.