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Non credo al Dio del risentimento quindi marco a vista il neopopulismo

La riflessione di Giuliano Ferrara sulla travolgente ondata del fascismo più o meno consapevole sulle democrazie liberali

È evidente che un'ondata di demagogia nazionalista, etnicista, bellicosa oltre ogni dire, e di fascismo più o meno consapevole, sta travolgendo il vecchio mondo della democrazia liberale.

Il riferimento agli anni Trenta fa sollevare il sopracciglio, non va bene, non sta bene, non si può decentemente portare come un distintivo un esilio che non c'è, per ora siamo tutti ancora al caldo (con la rilevante eccezione dei neri e dei naufraghi e dei soccorritori in mare) e alla fine tutto continua a giocarsi sul terreno elettorale e mediatico, e la Nike fa marketing di successo in America su una foto di Colin Kaepernick, il giocatore di football americano che piega il ginocchio contro il razzismo quando suonano l'inno nazionale, scatenando lo scandalo, e nessuno può dire che sia in atto un'usurpazione golpista e violenta di poteri nemmeno in Italia, il primo Paese euroccidentale che affianca Ungheria e Polonia nella via verso il regime nazionalpopulista, ma questo non cambia le cose.

Le elezioni europee saranno uno scontro duro che i nazionalisti rischiano seriamente di vincere, pappandosi magari in una prima fase la destra popolare indisponibile a un serio patto franco-tedesco per il rilancio dell'Unione.

Le autorità indipendenti cadono come birilli. L'America come Paese leader dell'Occidente liberale non c'è più. Lo Stato nazionale minaccia di ridiventare un dispositivo nelle mani delle oligarchie vincenti. Si sente dappertutto la paura, il timore di essere decisamente contro e per ragioni forti e con toni adeguati, merde alors!, ragioni che non dipendono dalle singole scelte dei nuovi arrivati ma dal loro stesso modo di essere, dalla loro retorica insopportabilmente brutale, dal loro disprezzo per i bilanciamenti e le regole del gioco, tutto messo in carico a un presunto inganno dietro le spalle del popolo ordito dalle élite transnazionali.

Ho passato la vita a sostenere in polemica con tutte le retoriche storiografiche insincere che "il fascismo non era poi così male", spiegando che la frase andava intesa nella sua accezione letterale e non vernacolare, che era una provocazione per capire meglio: il fascismo italiano non era, nonostante la giusta condanna che si è inflitto con le leggi razziali e la guerra alla fine della sua parabola demenziale, quel male senza le complicazioni della demagogia e le contraddizioni della storia europea che gli antifascisti tromboni hanno sempre messo sotto accusa.

La mia stessa cultura di comunista italiano mi diceva certe cose che il revisionismo storico ha poi rimesso in gioco: c'era la reazione al bolscevismo, l'altro totalitarismo, c'era il crollo dello Stato liberale unitario nella crisi successiva alla prima guerra mondiale, i comunisti alla nascita del mussolinismo si erano rivelati "un elemento di dissoluzione della società italiana" (Gramsci), e l'irregimentazione delle masse fu anche un fatto di modernizzazione sociale, con la cultura e con la Chiesa il Duce venne a patti, la fine della democrazia dei partiti fu percepita come l'eliminazione di minoranze aventiniane e di disturbo che non meritavano di sopravvivere, l'autarchia economica fu una risposta all'isolamento italiano nell'arretratezza, dietro le ideologie e le imprese del farsesco imperialismo straccione c'era la difficile e lenta costruzione, cominciata con le imprese della sinistra risorgimentale e dello stesso liberale ferrigno, Giovanni Giolitti, di una nazione nuova o novissima.

Insomma se parlo di fascismo non ne parlo per sbandierare un nobile ma spento segnacolo in vessillo,e diffido di chi invece lo fa a questo modo. Ma non è possibile non registrare un cambiamento di fase e di regime che ha radici solide, avanza come una falange e punta su una gestione democratica ma non liberale della forza politica, la "democrazia illiberale" teorizzata da Viktor Orbàn nel mondo delle democrature, al fianco di uomini fortie strutture istituzionali che demoliscono il sistema dell'equilibrio dei poteri e dei meccanismi della società aperta, compreso il reciproco riconoscimento di valori della vecchia democrazia liberale dei partiti, una devastazione pietra su pietra.

Mi piacerebbe pensare che sbaglio, che esagero, che tutto è più volatile, e che alla fine basterà un paio di scarpe Nike in più in catalogo, una tornata di elezioni americane a novembre, qualche sorpresa derivante dalla forza dei mercati economici e finanziari, e tutto si dissolverà, si arriverà a compromessi più accettabili. Lo spero. Non lo credo.

Naturalmente tutto questo non vuol dire che il vecchio mondo e la sua logica siano condannati al confino, non vuol dire che non si possa continuare ad agire, scrivere, parlare, manifestare libertà di pensiero e di parola, tutt'altro, si moltiplicheranno, è da sperare, i canali di scorrimento di idee alternative, gli spazi di minoranza.

Non è che gli anni Trenta si ripresentano con lo stesso volto, ovvio, tutto è così profondamente cambiato. Ma al momento è clamoroso l'incalzare del consenso di massa verso la nuova ordalia, verso il giudizio di Dio del risentimento e della frustrazione di parte decisiva delle classi medie, e la capacità di influenzare le cose delle voci legate al mondo sul quale tramonta il sole mi sembra tutto sommato pari a zero, o quasi.

(Questo articolo è stato pubblicato sul numero di Panorama in edicola il 20 settembre 2018)

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Giuliano Ferrara