Non si può mandare in carcere un giornalista per una parola
Il caso Mulè e il reato di diffamazione a mezzo stampa: perché si deve depenalizzare
La diffamazione è un venticello, un’aura sottile ma anche uno tsunami. O un vuoto d’aria senza scosse. Dipende. Dipende da chi sei, chi è il diffamato, chi l’infamante. Ma alcuni casi clamorosi, e anche vergognosi, hanno investito l’intera comunità di un problema che va al di là della politica politicante e riguarda invece la questione dei principi. Primo fra tutti, quello secondo cui non è lecito (moralmente e non giuridicamente parlando) privare della libertà un cittadino per un reato compiuto con le parole. Quali che siano le parole, anche le più abiette, le più infami, le più false. Si tratta sempre e soltanto di parole. Immagino già l’insurrezione: ma allora vuoi dire che ognuno può impunemente diffamare facendola franca? Risposta: no, nella maniera più assoluta. Si tratta di trasferire la pena dal campo della tortura fisica (l’arresto è una violenza fisica e la detenzione è una violenza fisica) a quello della sanzione pecuniaria. Mi hai diffamato arrecandomi un grave danno di immagine e anche alla salute e al mio lavoro e alla mia famiglia? Adesso me la paghi. Me la paghi proprio in termini monetari: mettendo mano al portafoglio. Hai fatto un danno? Grave? Paghi. Ti pignoro la casa, ti sequestro la macchina e il frullatore, ti faccio fare una vita d’inferno per riparare il danno, ma senza mai metterti le mani addosso.
Invece noi abbiamo un modello di legge che prevede il cavalletto, la frusta, la gogna, la torre. In termini realisti: le manette, essere ficcati in una macchina della polizia davanti al caseggiato e alla tua famiglia, l’arrivo in carcere, la perquisizione anale, il denudamento, la visita medica, il bugliolo, l’agente di guardia che i primi giorni ti guarda mentre sei sul cesso per accertarsi che non ti stai suicidando. Certo, c’è anche la versione light dei domiciliari, con il controllo di tutto quello che fai, niente telefono, niente computer, niente conversazioni. Ed era quello che si stava preparando per Giorgio Mulè direttore di Panorama e ciò che stava per accadere per Alessandro Sallusti. Mulè ha reagito con una lettera a tutti i direttori di giornale italiani chiedendo di formare un fronte compatto contro la carcerazione dei giornalisti. E dei direttori dei giornali in particolare. Come forse non tutti sanno, un direttore “responsabile” (questo l’aggettivo che gli compete) risponde di ogni singolo pezzo pubblicato sul suo giornale, sito, settimanale o quel che è. Se quel che pubblica offende qualcuno, diventa responsabile di “omesso controllo” e, accumulandosi le condanne, o prendendone una particolarmente dura, va in galera. O finisce chiuso a chiave in casa.
Di qui la formazione di un partito trasversale, senza preclusioni politiche, che coinvolge tutti, me come Travaglio, Mulè come Ezio Mauro, Sallusti come Calabresi.
Il fatto che sia trasversale e cioè non partitica, non vuol dire che questa iniziativa sia al di là delle ideologie. Io penso al contrario che sia una ribellione assolutamente liberale. La libertà, subito dopo la vita, è il diritto più prezioso che abbia un essere umano. E infatti si privano della libertà quegli esseri umani che agiscono in maniera violenta e distruttiva contro altri esseri umani. Per farlo, li si priva della libertà. Ma lo si fa perché (almeno così dovrebbe essere) la loro libera circolazione mette a repentaglio la vita e la libertà altrui. Ma per quale motivo si dovrebbe privare della libertà un uomo, una donna, un giornalista ma anche un cretino che fa le scritte sui muri, se la sua azione non esercita violenza fisica su altri esseri umani e non li priva della loro vita e della loro libertà? Qualcuno dirà: ma chi offende gravemente per motivi razziali, chi irride alla Shoà, chi insulta gli africani, chi usa la violenza verbale, provoca un danno anche personale ed emotivo. E’ vero, ma si tratta pur sempre di delitti commessi con la parola. L’uso è l’unico animale che vive grazie ai simboli. La parola è un simbolo. Se tu non parli la lingua in cui quella parola viene pronunciata, senti soltanto un suono incomprensibile, ma se condividi il simbolo conosci il significato e ricevi attraverso la parola l’informazione che ti viene inviata attraverso il simbolo. Ma i simboli sono soltanto le maschere dei concetti, i nomi gutturali o vocalizzati di cose, idee, relazioni. Come è possibile concepire l’arresto, il bugliolo, le manette per aver usato dei simboli, per infami che siano, come la svastica?
La diffamazione è poi uno strumento molto duttile. Il giudice può decretare per esempio, a me è capitato, che persino se quel che è stato scritto su di te era falso e offensivo, non si configura il reato di diffamazione perché si tratterebbe invece dell’inafferrabile diritto di cronaca. Dipende dal giudice, dipende dal tribunale, who knows?
E così in Parlamento ha iniziato il suo cammino la revisione del reato di diffamazione, per quel che riguarda le pene e le sue modalità. Alcuni politici, innervositi per essere stati menati per il naso dai giornalisti, hanno la querela facile e vorrebbero che i loro nemici giornalisti fossero gettati nelle segrete e lasciati ai topi come l’abate Faria. Ma questa voglia di castigo, anzi di vendetta, è nemica del vivere civile e di una civiltà moderna. La corte dei diritti dell’uomo si è espressa, tutte le istanze europee anche e siamo solo noi, gli italiani, a are la figura dei cavernicoli, dopo aver concesso al mondo Cesare Beccaria e gli intellettuali del Caffè.
I tempi sono maturi, il primo passo è stato compiuto e bisogna sorvegliare affinché la revisione giuridica non si impantani. Colgo l’occasione per dire che sarebbe molto bello se in sede di modifica della Costituzione si cambiasse l’articolo 1 della Costituzione, quello che oggi dice che l’Italia è una Repubblica fondata sul lavoro e lo sostituisse con un articolo del seguente tenore: “L’Italia è una Repubblica fondata sulla libertà e la dignità del singolo cittadino, che devono esser rispettate come beni supremi a fondamento di tutti i rapporti sociali e giuridici”. Qualcosa del genere. Lo Stato non può garantire il lavoro, ma potrebbe garantire il rispetto del bene supremo della libertà, limitando la reclusione ai soli casi di condannati che costituiscano pericolo per la libertà e l’incolumità altrui. Tutto il resto si paghi severamente, ma in moneta sonante.