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Il "nuovo" Donald Trump

Alleato contro i terroristi ma cane sciolto nella partita a scacchi con il resto del mondo

È un Donald Trump diverso quello che ha ordinato il bombardamento della base siriana dalla quale sarebbe partito il raid chimico che il 4 aprile ha seminato la morte tra i civili di un villaggio della provincia di Ibdil (100 vittime, di cui una trentina bambini).

Meno di 48 ore dopo, il "nuovo" Trump ha dato ordine al gruppo da battaglia della portaerei Carl Vinson di portarsi in prossimità delle acque nordcoreane, per chiarire al regime di Kim Jong-un che le sue continue provocazioni potrebbero non rimanere più senza risposta. Com'è noto, il raid siriano ha provocato l'ira furibonda del Cremlino, spiazzato dal comportamento di quello che riteneva un interlocutore docile e malleabile.

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C'è da ritenere che neppure Pechino apprezzi l'esibizione di muscoli nei confronti del suo ribelle vassallo coreano, tanto più considerando l'ammonimento che lo sta accompagnando: "Se Pechino non è in grado di tenere a freno la Corea del Nord, ci penseranno gli Stati Uniti".

Si tratta, sostanzialmente, dello stesso messaggio recapitato a Mosca dopo il raid siriano: "Che siate stati complici del macellaio di Damasco o incapaci di controllarlo, sappiate che lo colpiremo ogni volta che userà il gas contro la popolazione civile".

Ma che cosa ha scatenato "The Donald", che cosa è stato capace di spingerlo a quella che appare una vera e propria inversione di rotta rispetto a quanto fino a poco prima sempre sostenuto? Credo che il punto di partenza di tutto vada individuato nel clamoroso errore di calcolo compiuto dal vertice siriano, forse malconsigliato dai russi.

Bashar al Assad ha ritenuto che le dichiarazioni della Casa Bianca sulla crisi siriana ("Un regime change non è all'ordine del giorno ... Siamo impegnati insieme alla Russia per sconfiggere l'Isis") gli garantissero una sorta di impunità assoluta.

Il dittatore di Damasco ha dimostrato in questi anni di saper far ricorso alla più spietata brutalità e deve aver pensato che se l'America di Barack Obama, così fortemente ostile al Cremlino, aveva rinunciato ad agire nel 2013 (oltre 1.400 morti), quella di Trump così amica di Vladimir Putin non si sarebbe scomodata per poco meno di cento...

Provocata da tanta arrogante stupidità, quest'America ha colto l'occasione per ribadire che la linea rossa tracciata da Obama resta valida: con la differenza che ora alla Casa Bianca siede Trump, il quale non ha nessuna timidezza rispetto all'uso della forza. Al Cremlino, ed è qui la seconda ragione, Trump ha voluto chiarire che riconoscerne il ruolo in Medio Oriente non significa certo consentirgli di estromettere gli Stati Uniti. Tanto meno se questo avviene attraverso la legittimazione dell'egemonia iraniana nel Levante e portando la Turchia (un Paese membro della Nato) nella sfera di influenza russa.

Proprio la durissima reazione di Erdogan nell'immediatezza della strage di civili consentiva agli Stati Uniti di ricondurre all'ovile il riottoso alleato turco, offrendo una versione immanente e immediata della punizione di Allah invocata dal sultano di Ankara. Come ho avuto modo di scrivere più volte su queste pagine, la triangolazione tra Russia, Iran e Turchia era tutt'altro che stabile e destinata a una fine tanto prevedibile quanto repentina. Occorre poi ribadire che la "guerra al terrore" offre un ben misero mastice per qualunque coalizione: le alleanze che possono realizzarsi non vanno oltre la dimensione tattica (la liberazione di Raqqa o Mosul) ma non sono esportabili neppure a livello regionale, perché gli interessi degli attori non solo non coincidono, ma spesso neppure convergono e, nel caso di Russia e Stati Uniti, addirittura divergono.

Non sfuggirà, in tal senso, che il nuovo decisionismo trumpiano è incastonato in una decade inaugurata dall'attentato di San Pietroburgo (a sua volta a ridosso di quello londinese) e proseguita con quello di Stoccolma e le stragi di copti in Egitto (per tacere dei tentativi sventati a Berlino e Oslo). Saremo pure tutti (o quasi) in guerra contro il terrorismo islamista, ma per il resto ognuno pensa e agisce in proprio. E, in ogni caso, la lotta all'Isis non giustifica atrocità come quelle di Ibdil.

L'ondata di attentati continuerà, in Europa e al di là del Mediterraneo, o perlomeno continueranno i complotti volti ad attuarli. Riusciremo a sventarne molti, forse la maggior parte, ma non certamente tutti. È la nuova strategia dell'Isis, dettata dal fatto che a Raqqa e Mosul hanno i mesi contati. E può poggiare su una diaspora del terrore destinata ad aumentare col ritorno dei foreign fighters. Ma Trump guarda oltre, la sua azione decisa gli ha guadagnato non solo la solidarietà scontata di Israele e della monarchie sunnite, ma anche quella molto meno ovvia degli europei. E ha messo all'angolo Putin, che appena pochi giorni prima appariva baldanzosamente occupare il centro del ring.

Tutto ciò non trasforma il presidente Usa in uno statista, ovviamente. E di certo non vanno sottovalutate le ragioni di politica interna che hanno contribuito a spingerlo all'azione: anzitutto la necessità di risalire nei sondaggi e di allontanare dal suo capo il sospetto di poter essere una marionetta nelle mani di Putin, tanto più considerando che l'inchiesta Russiagate prosegue e il rischio di impeachment è sempre dietro l'angolo.

Si dimostra però che l'America non intende rinunciare al proprio primato, ma vuole semplicemente esercitarlo in maniera molto più selettiva, senza dar troppo conto al parere altrui e, semmai, cercando di scaricarne i costi il più possibile su alleati, rivali e persino avversari.

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Vittorio Emanuele Parsi

Professore ordinario di Relazioni Internazionali all'Università Cattolica di Milano

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